mercoledì 27 luglio 2011

I Gas in campo, il campo dei Gas

I gruppi d'acquisto solidale fanno politica. Ma possono anche cambiare la politica? Riflessioni sull'economia e la politica del noi: da una relazione al convegno Sbarcogas 2011
Sono almeno due, ben diversi, i significati del termine “politica”. Vi è la politica dei fini immediati, contrattando i quali si persegue un proprio utile, e vi è la politica della “conversione” identitaria, per ricorrere ad un termine che Pizzorno prende volutamente in prestito dal linguaggio religioso1. Quest’ultima è la politica dei fini di lungo periodo, dibattendo i quali si rimettono in gioco le identità individuali e quindi i confini dei gruppi sociali. Ciò succede perché «gli individui entrano reciprocamente in relazione pratica non soltanto per realizzare scopi comuni, ma anche per scoprire chi sono e cosa diventeranno in quanto esseri sociali»2. La loro identità non è data, ed essi se la costruiscono interagendo con altri.

I Gruppi d'acquisto solidale fanno politica principalmente in questa seconda maniera. Quando domandano «la promozione di un’agricoltura sostenibile; l’attenzione a uno sviluppo equilibrato e a scelte di consumo che siano non solo consapevoli ma anche solidali; la creazione di rapporti con altri soggetti associativi (e, in alcuni casi, partitici); la crescente richiesta alle amministrazioni pubbliche di riorientare le proprie politiche in senso più partecipativo»,3 essi, oltre ad avanzare rivendicazioni, evocano fini di lungo periodo. Ma così incidono sulle identità dei soggetti coinvolti nel processo (se stessi e gli interlocutori), generando un’azione collettiva di natura politica.
Sono” solidale o mi “comporto” solidalmente?
L’esperienza dei Gas sta all’incrocio tra beni mercantili a qualità controllata, beni relazionali e beni posizionali. Essa inoltre costituisce spesso un percorso di cambiamento identitario. Questi due elementi dell’analisi possono aiutarci a comprendere perché i Gas stanno ottenendo, e ancor più potrebbero suscitare, un ampio consenso politico-culturale.
Molti studiosi hanno documentato il crescente disagio verso un modello di produzione e consumo nel quale i beni posizionali sono centrali4. Questa è una circostanza destinata a durare e che va colta sotto la superficie. Permettetemi di spiegarmi con due esempi, che descrivono la stessa logica anche se toccano altri temi. In una celebre ricerca che risale agli anni Trenta dello scorso secolo, Richard La Piere viaggiò lungo gli Stati Uniti in compagnia di due persone di origine cinese, per verificare quanti luoghi di ricettività turistica avrebbero loro concesso o negato il servizio. Malgrado un forte pregiudizio anticinese tra la popolazione statunitense dell’epoca, soltanto in un caso su circa 250 furono sollevate delle difficoltà. Quando tuttavia, in seguito, La Piere inviò agli stessi albergatori e ristoratori un questionario, ottenne una metà di risposte che, per il 90% circa, rifiutavano di accogliere cinesi5. Tale risultato venne da lui interpretato nei termini della distinzione tra atteggiamenti e comportamenti. Chiamiamo “atteggiamento” ciò che siamo disposti a fare di fronte ad un dato problema: esso esprime come opera l’identità sociale che ci siamo costruiti. Denominiamo invece “comportamento” il singolo atto col quale rispondiamo effettivamente ad un dato problema. Secondo La Piere, l’indagine documenta che i comportamenti razzisti sono assai meno radicati e diffusi degli atteggiamenti razzisti. Quando si tratta di enunciare e difendere un pregiudizio, ciò accade con severa ed impermeabile coerenza. Quando si tratta di calarsi in concreti contesti d’interazione, può succedere che si compiano scelte in cui la “regola” viene continuamente soppiantata da “deroghe circostanziate”. Il secondo esempio è breve ma molto evocativo:
«Nel 1985, nel vecchio Sudafrica dell’apartheid, a Durban vi fu una dimostrazione. La polizia caricò i dimostranti con la consueta violenza. Un poliziotto inseguì una donna di colore, con l’ovvio proposito di colpirla con il manganello. La donna, correndo, perse una scarpa. Il poliziotto, brutale nelle sue funzioni, era anche un giovane afrikaner ben educato, cui era stato insegnato che se una donna perde una scarpa, bisogna chinarsi a raccoglierla. I loro sguardi si incontrarono mentre lui le restituiva la scarpa. Poi lui la lasciò andare, poiché colpirla non era più un’opzione accettabile»6.
Gli atteggiamenti e i comportamenti sono spesso non allineati nei riguardi delle scelte che conferiscono senso alla persona, ossia nei riguardi delle scelte sui fini di lungo periodo, ossia nei riguardi delle scelte capaci di modificare l’identità. Il punto cruciale è che le scelte su come produrre e consumare hanno tali caratteristiche, non meno delle scelte sul razzismo! Ecco dunque che il movimento dei Gas può svolgere, a partire da questa divaricazione, un’efficacissima battaglia politico-culturale. La massa dei consumatori, in termini di atteggiamenti, insegue beni che, in termini di comportamenti, non le danno adeguato benessere. Chi svela, come nella favola, che il Re è nudo, ottiene un’attenzione ed una credibilità molto elevate. Ottiene dunque una “voce” capace di cambiare pezzi importanti della sfera politica.
Bisogni sociali e politica extraistituzionale
Che i Gas facciano politica nell’accezione appena descritta, è indubbio. Ma essi possono anche modificare la politica istituzionalizzata? Un movimento può sovvertire pacificamente le “regole del gioco” istituzionale votando, mobilitandosi in piazza, selezionando i candidati da eleggere, controllando i finanziamenti ai partiti, promuovendo referendum o altre procedure di revisione costituzionale. Che cosa accade, tuttavia, se un movimento tenta di modificare quella sfera senza esservi incluso? Siamo davanti al capovolgimento dell’assunzione secondo cui si ottiene tanta più democrazia, quanto più i vari attori della società vengono inclusi nei processi di decisione istituzionale. Qui invece emerge un soggetto collettivo che intende rimanere esterno, sebbene non estraneo, al quadro politico istituzionale. Ogni tentativo di annetterlo, anziché rafforzarlo, ne cancellerebbe caratteristiche e esigenze.
Davanti ad un simile movimento sociale, un sistema politico democratico dovrebbe assicurare non soltanto la “libertà di rappresentanza” – esprimere l’identità dentro le istituzioni –, quanto altresì la “libertà di appartenenza” – la costruibilità di spazi sociali di riconoscimento – ai più vari soggetti sociali. Ma affinché i sistemi politici possano trasformarsi – da luoghi istituzionali chiusi in cui si decide mediante meccanismi di trasmissione autoritativa delle norme e del potere, e nei quali la rappresentanza è manipolazione o al massimo consultazione, a luoghi ove si moltiplicano procedure conflittuali e/o negoziali e ove la conoscenza si forma e circola anche dal basso verso l’alto –, occorre «che la definizione della democrazia […] comprenda altre due libertà: quella di “non appartenenza”, come possibilità di sottrarsi alle identità costituite per generarne di nuove; quella di “non rappresentanza”, come possibilità di rifiutare o modificare le condizioni date della rappresentanza»7.
Questo ragionamento, ampiamente ripreso dagli studi precorritori di Alberto Melucci, suggerisce, a mio avviso, la posizione che il movimento dei Gas dovrebbe avere rispetto alla sfera della politica istituzionale. Per un verso, in quanto movimento, esso esprime percorsi creativi e critici che evitano i vincoli della rappresentanza. Per l’altro verso esso organizza le energie vitali della società civile e, in tal maniera, probabilmente alimenta figure che, per decisione autonoma, entrano nei meccanismi della rappresentanza. Non corre alcuna corrispondenza automatica tra quelle figure e il movimento; ma la circostanza che senza il movimento quelle figure non sarebbero emerse, testimonia la fecondità della dialettica partecipazione/integrazione, movimenti/sistema.
1 Alessandro Pizzorno, La politica assoluta e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1993, pp.13-14.
2 Samuel Bowles e Herbert Gintis, Democracy and capitalism, Routledge, London, 1986, p.150.
3 Paolo Graziano, Nuovi spazi di partecipazione: i Gruppi di acquisto solidale, “Aggiornamenti sociali”, 2010, pp.7-8.
4 Ad esempio, Bruno S. Frey, Non solo per denaro (1997), Bruno Mondadori, Milano, 2005.
5 Richard T. La Piere, “Attitude and actions”, Social forces, 13, 1934, pp.230-237. Si veda Adriano Zamperini e Ines Testoni, Psicologia sociale, Einaudi, Torino, 2002, pp.62-63.
6 Jonathan Glover, Humanity: una storia morale del ventesimo secolo (1999), Il Saggiatore, Milano, 2002, p.58.
7 Alberto Melucci, L’invenzione del presente, Il Mulino, Bologna, 1982, p.224, corsivi e parentesi quadra aggiunti. 

* Il testo qui pubblicato è uno stralcio della relazione tenuta da Nicolò Bellanca all'11° convegno dei gruppi di acquisto solidali (Gas) e dei distretti di economia solidale (Des), svoltosi a L'Aquila dal 24 al 26 giugno del 2011. In allegato pdf, il testo integrale della relazione
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martedì 26 luglio 2011

Orti urbani, esperienze di comunità

di Fabio Ciconte*

Se in questi giorni siete a Genova, vi suggerisco di farvi una passeggiata a Vesima, a pochi km da Voltri. Lì, a un passo dal mare, tra un ponte autostradale e una piccola chiesetta, vedrete spuntare tanti piccoli pezzi di terra dove, da qualche anno, si coltivano orti seguendo il metodo dell’agricoltura sinergica, che promuove meccanismi di auto-fertilità del terreno senza bisogno di arare oppure di concimare, né di separare le piante (pur facendo attenzione a collegarle in modo compatibile e collaborativo tra loro). Anzi, a Vesima c’è l’orto madre più antico d’Italia.
Avrete così modo di vedere i frutti che questi orti stanno dando: non solo prodotti buoni (ottimi!) come lattuga, cavolo, fragole, basilico, pomodori; ma molto di più, perché intorno a questi piccoli appezzamenti di terra si sta costruendo una socialità diversa, anzi, si sta ricostruendo una comunità: laddove c’erano terreni incolti e rovi, case abbandonate e semidistrutte, e un progetto di costruzione che avrebbe rischiato di spianare via l’intera valle, questi orti hanno dato la spinta ai contadini e all’associazione Terra! per ripensare la valle e renderla un luogo dove, attraverso l’autoproduzione, la vendita diretta e la coltivazione di semi usati dai propri nonni, la terra torna ad essere un luogo da abitare, custodire e conservare.
Gli orti costituiscono un punto di incontro per la comunità, un tentativo di riprogettare la vita partendo da scelte individuali e collettive: sono la migliore risposta allo sfruttamento delle terre (e del lavoro), creano un legame diretto tra chi produce e chi consuma, azzerano i kilometri spesi per trasportare il cibo da una parte all’altra del globo, annullano qualsiasi imballaggio o spreco di acqua. Ma non solo, gli orti sono delle opere d’arte a cielo aperto, in cui ogni verdura, ogni ortaggio, ogni pianta spontanea rappresenta un pezzo unico di un mosaico in continua evoluzione.

L’esperienza degli orti e dell’agricoltura urbana, seppur con qualche anno di ritardo,  si sta diffondendo molto velocemente anche in Italia. Se esistesse una mappatura, vedremmo migliaia di puntini disegnati sulla cartina dell’Italia: gruppi auto-organizzati, orti didattici, orti sul balcone, aiuole coltivati a lattuga, orti sinergici.  Tra tangenziali, cavalcavia, ponti, semafori, autostrade, ecco  apparire qua e là  un orto in tutta la sua bellezza.
E credo di poter dire che questa forma di organizzazione rappresenterà un nuovo modo di fare politica, di dare una risposta ai bisogni della collettività. Accanto alle grandi battaglie sociali, per la difesa dei diritti umani e dell’ambiente, contro la precarizzazione del lavoro e per la democrazia, nei prossimi anni dovremo imparare sempre di più a portare avanti percorsi di vita quotidiana, fatti anche di cibo sano e autoprodotto, di mobilità alternativa, di riduzione di consumi. Per farlo c’è bisogno dell’impegno e della tenacia di ognuno di noi, ma c’è anche bisogno del coraggio delle istituzioni per valorizzare questi progetti che, per crescere, hanno bisogno di impegno e cura, altrimenti rimarranno delle buone prassi con cui autoincensarsi, ma non faranno mai sistema.
Ecco, se nei prossimi giorni passate di lì, andate a visitare gli orti e vi accorgerete che lo slogan “Voi la crisi, noi la speranza” ideato per il decennale del G8, non è mai stato così azzeccato. 
Se invece non avete modo di farlo, vi consiglio di guardare questo video dal titolo "Genova: orti urbani, esperienze di comunita'", pubblicato sul Blog de Il Fatto Quotidiano

*(Presidente di Terra! Onlus) 
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martedì 5 luglio 2011

I movimenti per l'acqua riuniti a Roma


Cosa fare dopo i referendum
I referendum sono stati vinti; sconfitte per la prima volta le politiche liberiste degli ultimi vent'anni. Ma le aziende private che avevano messo le mani sulla torta dell'acqua non sono certo intenzionate a tirarsi indietro; la volontà popolare non è un vincolo per chi ha per legge il fine di raggiungere il maggior fatturato possibile. Sono ancora molti gli interrogativi da sciogliere per il popolo dell'acqua, sui modi per rendere effettivi i cambiamenti sanciti dai referendum. 

Ecco che sabato 2 e domenica 3 luglio al Teatro Vittoria di Roma si sono riuniti comitati territoriali, cittadini e associazioni nell'assemblea nazionale dei movimenti per l'acqua. La voglia di festeggiare per una vittoria storica era in parte stemperata dai tanti interrogativi in sospeso e dall'attesa ansiosa di notizia dalla Val di Susa, alla volta della quale molti attivisti si sono diretti nella serata di sabato, dopo il primo giorno di assemblea. 

Dopo un brindisi di benvenuto, Paolo Carsetti, presidente del Comitato "2 sì per l'acqua bene comune", ha aperto gli interventi ricostruendo i passi che hanno condotto alla vittoria dei referendum e dando fiato e forma ai dubbi dei presenti: il referendum non è certo un punto di arrivo, il lavoro più difficile inizia adesso.
Per capire cosa intendesse, basta dare un'occhiata a come si sono mossi i soggetti coinvolti nella gestione dell'acqua – vale a dire società private e amministrazioni locali – dopo i referendum. Se si escludono pochi esempi virtuosi – Napoli su tutti, dove il neo eletto assessore ai beni comuni Lucarelli, accolto da un'ovazione all'assemblea, ha ribadito con una delibera comunale la gestione pubblica e partecipata dell'acqua – la tendenza generale è stata in netta opposizione alle linee dettate dalla consultazione popolare.
Acea, gestore dell'Ato2 di Roma e dintorni, ha deciso di tagliare la fornitura dell'acqua a tutte le famiglie in difficoltà economica che non sono in grado di pagare il conto. Astrid Lima del comitato di Velletri ha ricordato il caso di Francesco, quarant'anni, che vive con la madre invalida permanente in una casa popolare di 50 mq. Per tre anni il gestore non gli ha inviato bollette - nonostante il disciplinare tecnico allegato alla convenzione di gestione obblighi Acea ad inviare fatture almeno ogni sei mesi, a tutela delle persone più disagiate - salvo poi emettere un'unica fattura di 1200 euro pochi mesi fa. Al mancato pagamento, Acea ha chiuso i rubinetti. E lo stesso ha fatto con le altre famiglie morose, senza preoccuparsi delle condizioni socio-economiche delle stesse. Un atteggiamento decisamente intransigente per una società che viola stabilmente le disposizioni contrattuali e che nel 2010 ha avuto il suo profitto record, con un utile di 58,8 milioni di euro.
E che dire di Civitavecchia, dove a pochi giorni dai referendum l'amministrazione comunale ha pubblicato il bando per la cessione del 60 per cento della Holding Civitavecchia Servizi, che raggruppa le ex municipalizzate, servizio idrico compreso? E della Regione Lombardia, dove la maggioranza di centrodestra non ha alcuna intenzione di abrogare la legge regionale approvata di fretta a dicembre, che sullo stampo del decreto Ronchi prevede la privatizzazione del servizio idrico?

E se persino la giunta regionale pugliese guidata da Nichi Vendola promuove una legge ostile alle disposizioni referendarie, che annulla la garanzia dei 50 litri d'acqua giornalieri – stabiliti dall'Oms come minimo vitale –, lascia intatta la forma di s.p.a. dell'ente gestore ed infine non elimina quel 7 per cento di profitto minimo garantito abrogato dal secondo quesito, allora viene da chiedersi quali possibilità concrete ci sono di procedere ad una ripubblicizzazione sostanziale del servizio idrico. 

Eppure dall'assemblea nazionale emerge anche una grande volontà di continuare la battaglia tutti assieme, uniti ma sparsi sul territorio, ognuno promuovendo delibere, impugnando leggi, portando avanti vertenze. Coniugando la lotta sul territorio con la promozione di una legge a livello nazionale sullo stampo di quella di iniziativa popolare presentata dal forum italiano dei movimenti per l'acqua nel 2008, e con uno sguardo alla situazione europea e mondiale (senza escludere la possibilità di promuovere un referendum europeo).
I workshop di domenica rispecchiavano proprio questa volontà: uno era incentrato sulle lotte territoriali, un secondo sulla dimensione nazionale, il terzo sulla situazione internazionale. Perché l'acqua, come ha ricordato padre Alex Zanotelli dal palco dell'assemblea plenaria, appartiene a tutti gli abitanti del mondo e a tutti deve essere garantita. E a chi si pone il problema dei finanziamenti il missionario comboniano ha ricordato che "spendiamo 27 miliardi di euro di spese militari", concludendo "neanche fossimo attaccati dagli Ufo!"

da     www.ilcambiamento.it                       4 luglio 2011
Video a cura di Massimiliano Petrucci e Maurizio Argentieri, Associazione Manifestopea.
(su youtube a lato visibili i link a vari interventi )

venerdì 1 luglio 2011

Tinariwen, Tassili. L'avanzata dei deserti

di Valentina Gambaro *

A cavallo tra agosto e settembre sarà pubblicato anche in Italia "Tassili", quinto album del collettivo di musicisti Tuareg, gruppo composto da combattenti rivoluzionari incontratisi nei campi profughi algerini.

Per il nuovo album i Tinariwen hanno optato per un cambio di rotta: non più i suoni delle chitarre acide di impronta psichedelica che li hanno resi famosi, ma un ritorno all'essenziale grazie ad un uso massiccio di chitarre acustiche e percussioni. In "Tassili" (traducibile con "altopiano") ritroviamo anche grandi collaborazioni: la band ha registrato il disco nel deserto algerino, dove è stata raggiunta nelle ultime settimane da alcuni membri della band newyorkese TV On The Radio, dalla Dirty Dozen Brass Band e da Nels Cline (chitarrista dei Wilco) che insieme hanno dato al disco quell'apertura al mondo che i Tinariwen da sempre vanno cercando.

E' anche grazie a questa continua ricerca all'integrazione di suoni e tradizioni che il gruppo berbero ha conquistato negli anni la stima di molti artisti internazionali del calibro di Robert Plant, Brian Eno, Thom Yorke e Damon Albarn, che sul loro conto ha detto "Sono stati dei veri e propri ribelli e quale maniera migliore per comunicare un problema al mondo se non attraverso la musica? Non devi essere in grado di capire le parole per sentire qualcosa che sta più in profondità. E' il modo in cui lo si esprime che dice tutto".

Sì, perché i membri dei Tinariwen sono ex combattenti che si sono incontrati esuli nei campi profughi dell’Algeria dopo aver dovuto abbandonare le proprie terre, e prima di dedicarsi alla musica a tempo pieno erano la voce ufficiale dell’MPA, il movimento rivoluzionario del Mali, che ne finanziava le attività pagando loro l’acquisto di strumenti. Dopo aver abbandonato il fucile, hanno deciso di dimostrare al mondo che la rivoluzione si può ancora fare imbracciando una chitarra elettrica.
Cantano nella propria lingua originaria (il tamasheq) che i regimi mussulmani vorrebbero abolire, e traggono l'ispirazione dal loro deserto, che da sempre altri popoli hanno tentato di portar loro via. Verrebbe così da dire, sfruttando le parole del Piccolo principe di Antoine de Saint-Exupéry, che ciò che rende bello il deserto è che da qualche parte nasconde un pozzo...

Dalla fine di giugno i Tinariwen saranno anche impegnati in un lungo tour mondiale che terminerà a dicembre in Gran Bretagna. Nel frattempo godiamoci il video di "Tenere Taqhim Tossam", primo singolo tratto da Tassili.



da    www.lifegate.it                15 giugno 2011