giovedì 27 gennaio 2011

La questione dell’Ecologia politica in Italia e in Europa di Marco Boato

In vista dell'incontro-conclave del 29-30 Gennaio a Bologna

Per “Mondoperaio”  – gennaio 2011


La questione dell’Ecologia politica in Italia e in Europa
                                                                                        Marco Boato
   Dall’Europa sono arrivati in questi anni segnali drammatici, sia sul versante economico che su quello sociale e politico. Anche dove i partiti socialdemocratici erano tradizionalmente forti, come la Svezia e la Germania, ma anche la Francia, la crisi delle socialdemocrazie appare ormai irreversibile.
   Stiamo dunque vivendo una fase storica di grandissimo cambiamento e di grandissima difficoltà, sia a livello europeo che, per molti aspetti, anche a livello mondiale. Il quadro in cui intendo inserire la mia riflessione sull’ecologia politica è quello in cui, soltanto una quindicina di anni fa, la maggior parte dei paesi europei era guidata da governi che in Italia definiremmo di sinistra o di centro-sinistra – socialisti, socialdemocratici, laburisti - mentre oggi la stragrande maggioranza dei paesi europei ha governi che definiremmo di destra o di centro-destra: conservatori, liberali, nazionalisti, e così via. Oggi la Svezia, che era un po’ il fiore all’occhiello della socialdemocrazia europea, è governata dalla destra, e questo ci fa capire quanto profonda sia stata la svolta iniziata con la caduta del muro di Berlino del 1989, e quanto forte sia l’ondata, crescente negli ultimi dieci anni, di quello che potremmo definire genericamente un populismo di destra.
Il populismo di destra in Europa e negli USA
   In Europa, il populismo di destra ha avuto successo facendo leva su questioni che riguardano la crisi economica, la disoccupazione, la crisi del welfare, l’insicurezza, la paura suscitata dagli immigrati e dalla società multietnica. Pochi mesi fa persino la cancelliera tedesca Angela Merkel ha dichiarato la fine della società multiculturale in Germania. Eppure la Merkel non è una leader populista di destra: è sì una leader conservatrice, ma ha una cultura politica diversa, cristiano-democratica. Siamo comunque di fronte alla transizione da un’Europa prevalentemente socialdemocratica” ad una prevalentemente “conservatrice”. Il termine “conservatore” è tuttavia inadeguato, perché in alcuni casi le forze di centro o di centro-destra hanno dimostrato di essere più innovative delle forze della sinistra, le quali sono diventate spesso a loro volta forze conservatrici rispetto al mercato del lavoro e alla sicurezza sociale costruiti negli anni del secondo dopoguerra.
   Ora, in questo quadro, ovviamente molto semplificato, ritengo vada collocata anche la sconfitta del presidente americano Barack Obama alle recenti elezioni di mid-term del novembre 2010. Obama aveva vinto le elezioni presidenziali come una grandissima speranza e ha rappresentato una grandissima innovazione, non solo politica ma anche socio-culturale. Si è trovato però a gestire faticosamente l’eredità delle due guerre di George Bush jr. e una terribile crisi economica maturata prima, ma esplosa proprio durante i suoi primi due anni di mandato. Il populismo di destra - in questo caso rappresentato soprattutto dai cosiddetti tea party - è stato determinante in questa sconfitta, che forse non sarà definitiva (e c’è da augurarselo); ma non si era mai più verificato dal 1948 un tale spostamento di seggi dai democratici ai repubblicani. Se noi ci voltiamo indietro a ricordare cos’è stata la speranza straordinaria che ha suscitato l’elezione di Obama in America e nel mondo, il tracollo recente è un fenomeno di tali proporzioni, che lascia allibiti.
L’ecologia politica oltre l’ambientalismo
   Comunque, a parte gli USA,  in questo quadro, finora più nel Nord-Europa e molto meno nel Sud-Europa - cercando di non usare eccessiva enfasi propagandistica, ma guardando la situazione più da osservatore politico, sociale e culturale -, l’unico elemento che vedo di innovazione, di cambiamento e anche di speranza rispetto al futuro è la crescita apparentemente inarrestabile (dico “apparentemente”, perché non si sa mai cosa potrà davvero succedere) dei vari soggetti politici ecologisti e verdi, sostanzialmente accomunati dai temi dell’ecologia politica e della maturazione di una nuova soggettività politica, culturale ed anche etica.
   Penso che questo fenomeno dell’ecologismo politico, che si è sviluppato ed accresciuto negli ultimi anni, sia qualcosa di più dell’ambientalismo classico, sia qualcosa che riguardi nel suo complesso anche l’ecologia culturale, l’ecologia della mente, l’ecologia ambientale, l’ecologia sociale; sia cioè qualcosa che non riguarda più soltanto l’aspetto pur importantissimo, ma delimitato, dell’ambientalismo storico come l’abbiamo conosciuto fino a pochi anni fa. Questo nuovo ecologismo politico ha sviluppato l’ambizione di essere non una nuova ideologia, ma una nuova visione culturale e un nuovo progetto politico, che cerca di affrontare tutte le principali questioni della società contemporanea: da quelle ambientali a quelle economiche, da quelle sociali a quelle culturali, da quelle etiche a quelle istituzionali. Perché c’è anche un’ecologia delle istituzioni: questioni come la partecipazione politica, la rappresentanza, la trasparenza e l’”anti-casta” - per usare un termine che tuttavia a me non piace molto - sono temi che fanno parte di questa visione più generale dell’ecologia politica.
La casta e l’anticasta: l’Italia che funziona
   L’anticasta è in realtà il titolo di un bel libro (EMI, 2010) curato da Marco Boschini e Michele Dotti: si tratta di una raccolta di saggi di vari autori, che in qualche modo “attraversano” questa nuova ecologia politica in Italia. Per ora l’attraversano soprattutto sul piano culturale e per quanto riguarda alcuni aspetti amministrativi a livello locale, ma di grande rilevanza. Questo libro è nato per rispondere al singolare fenomeno provocato da La casta di Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo: doveva costituire una demolizione della “casta”, ma paradossalmente ha rappresentato un’ulteriore incentivazione all’antipolitica, un ulteriore distacco dei cittadini non dalla casta, ma dalla politica stessa, e fonte per una ulteriore disillusione, per una sorta di “riflusso”, si sarebbe detto in altri tempi. Invece L’anticasta vuole rappresentare e dare la parola a “ l’Italia che funziona” (come recita emblematicamente il sottotitolo), ed è un universo sommerso caratterizzato soprattutto dai temi della nuova ecologia politica.
   Tuttavia, quando si parla di ecologia politica, più che un prioritario riferimento all’Italia (dove il fenomeno è presente, ma ancora assai poco visibile, anche a causa delle gravissime condizioni della democrazia nell’informazione), viene immediato il collegamento all’esperienza di Daniel Cohn-Bendit in Francia con “Europe Écologie”. In Francia, ma non solo. Questo nuovo fenomeno politico e socio-culturale ha portato, ad esempio, nel 2010 gli ecologisti della Lettonia al 19% dei voti nelle elezioni per il Parlamento, così come l’ecologista Marina Silva ha conquistato il 20% nelle elezioni presidenziali in Brasile, pur tenendo presente che Marina Silva ha ottenuto il 20% sulla sua figura fortemente carismatica, mentre il corrispettivo per il partito dei Verdi brasiliani sarebbe attorno al 5%. In ogni caso, Marina Silva ha catalizzato uno straordinario consenso, dovuto in gran parte alle delusioni che il governo di Lula, di cui lei era stata il Ministro dell’ambiente, aveva provocato sui temi ambientali ed ecologici.

I Verdi e gli ecologisti in Europa
   Nel resto dell’Europa centro-settentrionale, a parte la Francia dove hanno superato il 16%, i Verdi e gli ecologisti hanno ottenuto un grande successo di consensi, con percentuali ben oltre il 10%. Lo si è visto in paesi come l’Inghilterra, dove il sistema elettorale rende quasi impossibile per un partito medio-piccolo eleggere un parlamentare. Però adesso c’è una verde – la portavoce nazionale Caroline Lucas, che era già stata eletta al Parlamento europeo - nella Camera dei Comuni, perché nel suo collegio uninominale ha vinto, conquistando oltre il 30% dei voti. In paesi come la Danimarca, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e soprattutto la Germania e l’Austria, i Verdi sono andati ormai a percentuali superiori al 10%. In Germania hanno affrontato le ultime due tornate elettorali - le europee e l’elezione del Bundestag, che è la Camera bassa tedesca, l’unica eletta direttamente - e hanno ottenuto percentuali ampiamente superiori al 10%, notevolmente superiori in alcuni Länder. E in alcune città i Grünen hanno ottenuto la maggioranza alle elezioni amministrative e ora governano. Ma oggi i sondaggi - i sondaggi non sono voti reali, però sono quanto meno segni di tendenza - stanno dando i Grünen intorno al 20-25%, cioè più del doppio dei consensi che finora hanno realmente ottenuto, e in città come Berlino, nei sondaggi, arrivano a percentuali del 40%, cioè a  numeri francamente incredibili.
   Ho parlato del Centro-Nord Europa, ma c’è un’eccezione, ed è appunto la Francia, che è un paese mediterraneo, come la Spagna, come l’Italia, come la Grecia, come il Portogallo, che, pur non essendo un paese mediterraneo, è comunque un paese del Sud-Europa. In questi paesi i Verdi hanno storicamente fatto sempre enorme fatica a decollare, non raggiungendo quasi mai percentuali al di sopra del 2-3%, anche se poi i primi Verdi europei ad entrare al governo nazionale sono stati paradossalmente i Verdi italiani, nel 1996, con Romano Prodi.
Il ruolo di Daniel Cohn-Bendit ed “Europe Écologie”
   Il Daniel Cohn-Bendit di oggi (ma molti lo ricordano ancora come giovanissimo leader del Maggio ’68 parigino), un uomo con un enorme prestigio a livello politico e anche culturale, ha voluto riprendere l’iniziativa in Francia, avendo come primo (non unico) interlocutore Les Verts francesi, che nelle presidenziali del 2007 vinte da Nicolas Sarkozy - elezioni dove è comunque difficile avere grandi consensi - avevano ottenuto solo l’1,57%, cioè percentuali analoghe a quelle italiane (ed erano così arrivati al loro minimo storico). Cohn-Bendit è riuscito a mettere in atto un fenomeno un po’ simile a quello di Marina Silva in Brasile, con l’aggiunta però che, attorno alla sua figura, e attorno al rassemblement “Europe Écologie”, è riuscito a raccogliere i filoni più diversi dell’ecologismo politico francese, inteso nel senso in cui ne ho parlato all’inizio di questa riflessione: ecologia ambientale, ecologia sociale, ecologia culturale e della mente, ecologia urbana, ecologia politica, ecologia delle istituzioni.
   Ecco, oggi Daniel Cohn-Bendit, che non è un estremista, ma un riformatore, un innovatore, e che ha una cultura di governo, e la capacità di sondare il terremoto sociale che è in corso in Europa, è riuscito a mettere José Bovè - più volte finito anche in carcere, movimentista fondamentalista ma autentico, legato alle questioni dell’agricoltura, degli Ogm, dell’agricoltura biologica, della lotta contro i grandi padroni delle multinazionali - insieme con il fondatore di Greenpeace in Francia, con Eva Joly - ex magistrato e ora probabile candidata alle presidenziali del 2012 - e con le varie anime dell’ ecologismo francese, che soltanto in piccola parte avevano avuto finora uno sbocco nei Verdi francesi, i quali pure adesso hanno una leader con un certo carisma: Cécile Duflot , una donna molto giovane che ha saputo agganciare questo ponte che le gettava Cohn-Bendit. Il quale è lui stesso un verde, è stato per due legislature e ora è per la terza volta il co-presidente dei Verdi al Parlamento europeo. Quindi non è un leader che dall’esterno assume queste iniziative “di rottura”, è uno che dall’interno ha saputo mettere in discussione l’eccessivo minoritarismo, l’eccessiva chiusura dei Verdi francesi, dilaniati anche loro da diatribe interne come succede spesso nei piccoli partiti, ed è  riuscito  a costruire una rete orizzontale, “Europe Écologie” appunto, mettendo insieme tutti questi segmenti di una nuova ecologia politica vista in una chiave che supera il vecchio e tradizionale ambientalismo. Non lo nega, anzi ne fa propri tutti i contenuti, ma lo supera in una visione anche fortissimamente europeista, proprio in una Francia che è stata responsabile dell’affossamento della Costituzione europea (anche a causa delle divisioni interne ai socialisti).
   Nel corso dei mesi di ottobre e novembre 2010 si sono realizzate in Francia una serie di convention regionali e nazionali, per dare finalmente una prima struttura politico-organizzativa a “Europe Écologie-Les Verts”, che prima era solo un’alleanza in un progetto comune. È interessante che, mentre affrontava queste esperienze così fortemente innovatrici (alle europee sono seguite, con successi analoghi, anche le regionali francesi), Daniel Cohn-Bendit sia riuscito anche a pubblicare due volumetti di riflessione politica e teorica, editi anche in Italia: Che fare? Trattatello di fantasia politica ad uso degli europei (Nutrimenti, 2009) e Osare di più. Morte e rinascita della politica (edizioni dell’Asino, 2010), permettendo e stimolando un confronto più ampio e ambizioso.
La fine del secolo socialdemocratico
   Alla base di questo successo, sicuramente ha un peso anche il fatto che questo nuovo ecologismo sia percepito, almeno da molti, come un superamento della destra e della sinistra concepite in modo tradizionale. In realtà, debbo ricordare che questo aspetto stava già nelle origini dell’ecologismo politico anche in Italia. Oggi si usa riciclare la frasetta “non siamo né di destra né di sinistra, ma avanti”, attribuendola ad Alexander Langer, ma è una semplificazione un po’ banale e Langer non l’ha mai detta in questi termini. La sostanza del problema è però che la questione ecologica – come ho già detto, qualcosa di più complesso, di più largo, di più onnicomprensivo della sola questione ambientale - rappresenta un filone politico-culturale che va al di là di quelle contrapposizioni ideologiche che hanno la loro origine alla fine dell’ Ottocento, per affermare invece una sua connaturata trasversalità sociale, culturale e politica e per la sua capacità di rapportarsi con l’intera società.
   Le ideologie tradizionali sono arrivate da tempo “al capolinea”, e questo riguarda anche l’ideologia socialdemocratica, che pure tanti meriti storici ha avuto. Ralf Dahrendorf, il sociologo e politologo anglo-tedesco morto nel 2009, lo aveva scritto in un libro di un quarto di secolo fa, intitolato La fine del secolo socialdemocratico. Il fenomeno socialdemocratico, tutt’altro che negativo, stava esaurendo la spinta propulsiva già all’inizio degli anni ‘80, e degli osservatori attenti, non settari, erano in grado di capirlo da tempo. E, come sempre succede, questi fenomeni vengono compresi e interpretati dalle intelligenze più lungimiranti, ma poi ci mettono decenni per dispiegarsi pienamente nella concretezza delle situazioni storico-politiche. Infatti Ralf Dahrendorf faceva queste riflessioni mentre ancora la socialdemocrazia “imperava”, governando tre quarti dell’Europa. Oggi tre quarti dell’Europa, forse più, sono governati dal centro o dalla destra.
La caduta del muro di Berlino nel 1989 si pensava che avrebbe spianato il terreno per la socialdemocrazia, e invece le è caduto addosso… Fondamentalmente perché non ha fatto i conti con la propria storia  e con i profondi processi di trasformazione indotti dalla fine del sistema comunista sovietico. D’altra parte, se si guarda all’Italia, dal punto di vista sociale e amministrativo per molti aspetti la vera socialdemocrazia era rappresentata dal Partito Comunista, nonostante il suo nome. E il PCI ha poi cambiato vari nomi, ma i suoi gruppi dirigenti (anche quelli delle generazioni allora più giovani) non sono mai riusciti a fare davvero i conti con la propria storia, e le conseguenze si vedono tuttora.

La “conversione ecologica” di Alexander Langer
   Per quanto riguarda il difficile percorso dell’ecologismo politico in Italia, resta ancor oggi di grande attualità il riferimento al pensiero ed all’impegno politico-culturale di Alexander Langer, nonostante siano passati ormai oltre quindici anni dalla sua scomparsa (per scelta volontaria, il 3 luglio 1995). La “conversione ecologica” - come l’ha teorizzata Alex Langer, che in realtà non era un teorico ma un militante e dirigente politico il quale rifletteva sempre sui fenomeni reali - ha a che fare proprio con un cambiamento profondo della società e delle persone. Un cambiamento che riguarda la cultura, gli stili di vita, i modelli di comportamento sociale, e tutto questo visto non in chiave imperativa - come potrebbe essere attraverso un immaginario governo autocratico ecologista che imponga limiti e modelli -, ma proposto e praticato come la desiderabilità sociale e culturale di un cambiamento profondo, che quindi richiederà anni e decenni. Langer è morto ormai 15 anni fa, ma queste riflessioni, che scriveva alla fine degli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta, oggi sono ancora più attuali di quando lui le affrontava per la prima volta (i suoi scritti principali sono raccolti nel volume Il viaggiatore leggero, più volte edito postumo da Sellerio).
   Tornando alla Francia, va detto che “Europe Écologie” ha saputo davvero tener conto di quello che è stato seminato negli ultimi decenni in Europa dall’ecologismo politico e dalla critica delle ideologie tradizionali. In Francia però questo processo non aveva ancora dato un prodotto politico adeguato. Sto parlando proprio di soggetti politici, non di associazioni, che sono altamente meritorie, ma di per sè fanno un lavoro diverso da chi fa politica. Su questo piano, sia pure con exploit come quelli delle elezioni europee (sia del 1989 che del 1999) in cui ottennero il 10% (con nove euro-deputati), Les Verts poi ripiombarono alle percentuali precedenti intorno al 2-3%. Daniel Cohn-Bendit dal 2009 in poi ha saputo recuperare con grande successo e con una forte originalità di pensiero la dimensione della trasversalità, superando le vecchie divisioni e contrapposizioni ideologiche. Tant’è vero che nella prima fase, dopo l’exploit delle europee (quando ha eguagliato i socialisti francesi, superando il 16%)  ha cercato di dialogare - non dico di allearsi, ma di dialogare -anche con Nicolas Sarkozy, il quale appena eletto alla presidenza della Repubblica aveva promosso gli Stati generali dell’ambiente. Poi purtroppo la maggior parte dei risultati positivi usciti dagli Stati generali dell’ambiente sono rimasti lettera morta, così come è avvenuto per la maggior parte delle proposte uscite da quella Commissione sulle riforme, di cui aveva fatto parte anche Franco Bassanini.
A cosa serve l’ecologia politica
   D’altra parte “Europe Écologie” ha dimostrato davvero la capacità di parlare con tutti i settori sociali, ovviamente dando identità a un soggetto politico ecologista ed europeista attraverso precise ed assai elaborate proposte programmatiche. La sua esperienza è, dal punto vista politico-culturale e anche sociale, forse la più innovativa che si sia verificata in Europa, superando per alcuni aspetti i Grünen tedeschi. E non a caso l’esperienza francese ha rapidamente conquistato un consenso che ha eguagliato e superato le soglie che i Verdi tedeschi hanno impiegato trent’anni anni per raggiungerle. Adesso bisognerà vedere se questo processo avrà un suo aspetto “durevole”, per usare un’espressione cara agli storici francesi. Personalmente penso di sì, proprio perché - partita come fenomeno legato a una forte leadership anche carismatica, ma non utopistica, non massimalistica, non fondamentalista – “Europe Écologie” si sta dimostrando capace di diventare molto pragmatica, molto riformatrice, e fortemente innovativa sul piano culturale.
   Quindi la crisi economica in alcuni paesi europei sposta una parte della società verso un populismo di destra, e un’altra parte, stante la crisi della socialdemocrazia, trova nell’ecologismo una sua forma di rappresentanza e di prospettiva politico-culturale innovatrice. In questo quadro europeo nell’arco di vent’anni è successo che: primo, si è passati da una maggioranza socialdemocratica ad una maggioranza di destra, caratterizzata prevalentemente da un populismo di destra; secondo,  anche dove al governo c’è una destra liberale o conservatrice, ci sono fenomeni di populismo di destra che stanno crescendo a destra di questi governi di destra (sta succedendo in Germania, Austria, Belgio, Olanda e ora di nuovo in Francia con Marine Le Pen); e, terzo,  contemporaneamente, assistiamo alla crisi epocale della socialdemocrazia. In questo panorama, dunque, l’ecologismo politico sta rappresentando l’unico elemento di innovazione, che da solo ovviamente non risolverà i problemi, da solo non riuscirà certo a governare i paesi, salvo a livello locale, ma costituisce già un termine di confronto e di paragone che costringe anche le altre forze politiche, sia di destra che di sinistra, a rapportarsi con queste nuove tematiche, assolutamente decisive per un futuro sostenibile.
   È quanto sta succedendo per l’appunto in Francia, dove “Europe Écologie” non solo è riuscita probabilmente a recuperare settori di consenso potenzialmente populisti che avrebbero potuto finire con la destra, ma ha saputo condizionare pesantemente anche i socialisti francesi, ai quali la lezione è servita, perché i socialisti francesi, che hanno attraversato una crisi spaventosa, sono adesso in una fase di discussione al loro interno per cercare di capire cosa stia succedendo e come uscirne. E la stessa cosa sta accadendo altrove, perché la Merkel in Germania ed anche Cameron in Gran Bretagna sembrano molto più attenti alle questioni ecologiche e ambientali di qualunque governante  o oppositore italiano, di destra o di sinistra. In questi paesi europei anche i governi di destra o di centro-destra, conservatori o liberali che siano, affrontano i problemi ambientali ed ecologici in modo aperto, li inseriscono ai vertici della loro agenda politica, grazie, a mio parere, al fatto non solo che i problemi esistono e vanno affrontati, ma che c’è l’emergenza di un soggetto politico ecologista nuovo, come forza, come incidenza, come consenso, che impone a tutti, sia a sinistra che a destra, di fare i conti con questa realtà. In Italia tutto questo non sta avvenendo.
Il conflitto di classe e la disgregazione sociale
   Una perplessità che può sorgere legittimamente è questa: le radici della sinistra e della destra, che arrivano fino all’Ottocento, affondano nel conflitto di classe. Il populismo di destra è una risposta che cerca di mettere da parte il conflitto di classe. Non a caso questo populismo di destra mette insieme strati sociali molto diversi. Sembra che l’ecologismo politico, nel dichiarare la propria trasversalità, faccia altrettanto. Ma in realtà il conflitto di classe permane. Chi se ne occuperà?
   Il conflitto di classe permane, non solo, ma negli ultimi decenni abbiamo una divaricazione sociale enormemente più radicalizzata di quanto ci fosse prima. Quello che cambia sono le forme in cui questo si manifesta, cioè la frantumazione sociale, la perdita di centralità della fabbrica, la decomposizione anche dei soggetti politici e sindacali, che in qualche modo dovrebbero rappresentare questo conflitto. Fenomeni di iper-arricchimento, prima di tutto sul piano finanziario, ma anche di molti manager, a fronte di un progressivo impoverimento di strati sociali – occupati, disoccupati, sotto-occupati, precari, marginali, ceto medio che si impoverisce - non c’erano stati in questa dimensione nei decenni precedenti. Il problema è che tutto questo avviene in presenza di una grande frammentazione sociale, di un certo sbandamento culturale e della mancanza di riferimenti politici
   Ad esempio, nel Nord-Italia la basa sociale della Lega è prevalentemente di classe operaia, popolare, proletaria. Nelle fabbriche del Nord, anche se  non in tutte ovviamente, oggi ci sono molti operai della CGIL che votano Lega. Ma mi ricordo che quando ancora non esisteva la Lega Nord ed esistevano solo le varie leghe regionali nascenti, a metà degli anni Ottanta, da una ricerca dell’Istituto Gramsci veneto emergeva che una parte del consenso popolare alla Liga Veneta, che stava nascendo allora, veniva proprio dalla base del Partito Comunista, cioè da gente che in precedenza aveva sempre votato Partito Comunista. Questo per dire che non è un fenomeno solo del terzo millennio, è un fenomeno che ha cominciato a costruirsi ben prima, ed a scavare nelle basi popolari del Partito Comunista (e della Democrazia Cristiana), tant’è vero che l’esplosione della Lega avviene quando crolla il vecchio sistema politico, subito dopo il 1989.
   Quando si pensa alla crisi della sinistra, alla fuga degli operai, ci si dimentica spesso che in Italia ci sono alcuni milioni di persone, almeno due milioni e mezzo di immigrati, forse di più, che fanno i lavori peggiori, che si sentono sfruttati fino in fondo, e che non hanno né diritto di voto, né rappresentanza organizzativa, né conoscono o vedono riconosciuti i propri diritti.  Antonio Gramsci diceva che i partiti sono la nomenclatura delle classi, il Partito Comunista era il partito della classe operaia. Oggi non potrebbe essere così per nessuno, e non avrebbe neanche senso, però dal non essere più “classisti” in senso tradizionale al perdere ogni legame con gli strati popolari c’è un vero e proprio baratro. E bisogna ricordarsi che la DC all’epoca si definiva “interclassista”, proprio perché metteva insieme l’operaio cattolico con l’imprenditore cattolico.
La rivoluzione silenziosa e i valori “post-materiali”
   Adesso c’è il timore che anche l’ecologismo politico rischi di diventare un movimento che non riesce a dialogare con la “parte bassa” della società. Questo rischio c’è, anche se in questo momento non lo ritengo il rischio maggiore, lo vedrei più in una prospettiva di crescita. L’ecologismo, non solo in Italia, è stato prevalentemente un fenomeno “post-materiale”. È stato cioè un riconoscimento politico, culturale, anche intellettuale e teorico, oltre che pratico, da parte di settori sociali, più che di strati sociali, che in qualche modo non avevano più come problema prioritario la sopravvivenza, il mangiare, il dormire, la casa, il lavoro: un fenomeno post-materialista, appunto.
   Fin dall’inizio ci furono sociologi che studiavano questi cambiamenti profondi fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta. Ricordo in particolare Ronald Inglehart, uno studioso anglosassone, che nei primi anni Ottanta scrisse un libro molto bello, La rivoluzione silenziosa (Rizzoli, 1983), che analizzava che cosa stava cambiando sotto la crosta della società post-industriale, e aveva individuato questi cambiamenti nel passaggio dai valori materiali ai valori post-materiali, dai movimenti onni-totalizzanti ed onnicomprensivi, a movimenti per singoli temi, per singoli valori, per singoli obiettivi, per singole issues: l’ambiente, il nucleare, il consumo, la qualità della vita, la pace. Certo, quello era anche un periodo di grande sviluppo dei movimenti pacifisti, e in qualche modo quella era la radice sociale e culturale della nascita dei nuovi movimenti ecologisti.
   Non c’è dubbio, quindi, che l’ecologia politica, intesa nel senso complesso che ho più volte richiamato - ecologia ambientale, sociale, umana, della mente, delle istituzioni - ha a che fare con tutta la società nel suo insieme, e con tutti gli strati sociali. E quindi, se vuole avere un futuro, in Italia, in Europa, nel mondo, deve avere la capacità di dare una prospettiva, diversa dall’attuale modello di sviluppo, anche agli strati sociali popolari. La deve dare sia in termini di modello economico, sia in termini culturali, perché ho già accennato al fatto che fenomeni di populismo di destra, non solo la Lega in Italia, ma anche negli altri paesi europei, hanno purtroppo una forte incidenza negli strati sociali più poveri, che vedono l’immigrazione con paura, che sentono l’insicurezza sociale, che hanno timore del futuro, che hanno l’incertezza del posto di lavoro, che vivono fenomeni di precarietà e fenomeni di emarginazione.
L’uscita dal minoritarismo in una dimensione europea
   Tuttavia il problema più grosso oggi in Italia, a mio parere, per uscire dal minoritarismo rispetto alla dimensione europea, è quello di riuscire a individuare le persone, i gruppi, i movimenti, la cultura politica, il programma di un nuovo movimento politico ecologista. Non parlerei di ideologia, perché è una parola che è stata superata dal movimento ecologista fin dalle sue origini, ma parlerei di visione politica e anche di passione politica, perché senza visione e senza passione non si riesce a mobilitare le persone, a creare consenso, a creare speranza, a creare fiducia, a creare una svolta anche mentale. Ecco, questa è nell’immediato la sfida più grossa. Ma è evidente che un nuovo soggetto politico ecologista, che ricomprenda anche i Verdi, deve però andare ampiamente oltre i Verdi storici italiani, che hanno sofferto tutte le debolezze dei Verdi nei paesi mediterranei del Sud-Europa, ma a queste hanno aggiunto anche propri errori politici clamorosi.
   Che ci siano stati questi errori, i risultati degli ultimi anni sono lì a dimostrarlo. Ma quali sono stati questi errori? Intanto e sicuramente l’avere abbandonato troppo presto – in realtà non avrebbe dovuto essere abbandonata mai - proprio quella caratteristica di forte innovazione culturale, di trasversalità politica e sociale, che era nel DNA delle origini del fenomeno ecologista. Poi l’aver fatto male i conti col cambiamento del sistema politico ed elettorale. Non era certo facile affrontare la nuova situazione creatasi negli anni Novanta. I Verdi erano nati e avevano avuto le prime affermazioni nazionali, regionali e locali negli anni Ottanta, col sistema proporzionale e quasi dovunque come forza di opposizione e di alternativa. Successivamente, dal 1994 in poi hanno dovuto misurarsi col nuovo sistema elettorale che imponeva le coalizioni, e scelsero – credo naturalmente - di stare con la coalizione di centro-sinistra in alternativa a quella di centro-destra.  Ma nel fare questo abbandonarono la potenzialità, più che la capacità, di riuscire a parlare anche a settori sociali che votano centro-destra, ma che sono attenti e sensibili – e ci sono - anche alla questione ecologica e alle questioni ambientali.
Gli errori dei Verdi italiani
   Fin dal 1994, alla prima applicazione del nuovo sistema elettorale, i Verdi come tali non si caratterizzano più e si presentano coi “Progressisti” della “gioiosa macchina da guerra”. Già la parola era discutibile e non fu discussa: non c’è niente di più antitetico alla concezione ecologica della società, come la parola “progressista”, che è frutto al tempo stesso della mentalità industrialista e da Terza Internazionale. Successivamente si verifica invece, a mio parere, un aspetto positivo, che non è ovviamente soltanto dei Verdi, cioè la nascita dell’Ulivo di Prodi. I Verdi, e questa a mio parere è stata una scelta intelligente all’epoca, divengono fin dall’inizio soci fondatori dell’Ulivo di Prodi, con il PDS e i Popolari. Questa scelta dà ai Verdi una loro identità più aperta e riformatrice e li colloca non in una cultura di opposizione, ma in una cultura di governo: si potevano perdere o vincere le elezioni, ma la logica era quella di una cultura di governo, una cultura riformatrice che si candida a governare.
   La svolta che, a mio parere, ha invece determinato l’inizio del declino, è quando negli anni Duemila, dal 2001 in poi, i Verdi si collocano (con il mio totale dissenso) sempre di più all’estrema sinistra, quella che sui giornali di allora viene chiamata la “sinistra radicale”, la “Cosa rossa”. In questo modo, i Verdi nella “Cosa rossa” si collocano in quella che personalmente definisco anche oggi una specie di “riserva indiana”, per di più in via di consumazione e di esaurimento per ovvie ragioni storiche e politico-culturali.. Ciò che inizialmente era un fenomeno che poteva avere tra il 10 e il 15% di consenso, gradualmente non poteva che calare, perché in esaurimento era il fenomeno ideologico e sociale di riferimento, cioè il comunismo e il post-comunismo. Senza alcun disprezzo né per i comunisti né per i post-comunisti, si trattava comunque di un fenomeno storicamente finito ed in via di definitiva consunzione, con cui in Italia, dopo l’89, non si erano ancora fatti i conti, soprattutto a causa del sovrastare di Tangentopoli.
Il suicidio della “sinistra radicale”
   In sintesi, il fatto che i Verdi che nascono dalla fine delle ideologie totalizzanti, dal superamento delle ideologie ottocentesche, dal superamento dell’industrialismo come universo culturale, dalla necessità di una trasversalità, si andassero improvvisamente a collocare nella “riserva indiana” della “sinistra radicale”, della “Cosa rossa”, è risultata una scelta suicida, che non poteva che finire com’è finita. Per anni, nei servizi televisivi, nei resoconti giornalistici, si leggeva tutti i giorni e si sentiva dire tutte le sere: “Rifondazione comunista, Comunisti e Verdi… Verdi, Comunisti e Rifondazione comunista… si sono opposti… hanno protestato”. Sempre, per un decennio circa, quella è stata la caratura pubblica dei Verdi, cioè di essere una forza dichiaratamente ecologista, ma in realtà collocata in un ambito neanche post-comunista, ma addirittura semplicemente comunista. E’ stato un impoverimento programmatico, e soprattutto un annichilimento culturale, che oltre a tutto contrastava col concreto operare di molti Verdi nelle amministrazioni comunali, provinciali e regionali e anche nella quotidiana vita parlamentare (oltre che nel Parlamento europeo).
   Questa collocazione politica suicida, durata quasi un decennio, ha poi avuto la sua sanzione definitiva, in un uno-due micidiale – elezioni politiche del 2008 ed europee del 2009 -, tale da stendere al suolo chiunque. Dapprima la scelta di presentarsi alle elezioni politiche del 2008 con un’alleanza, un cartello elettorale, denominato “Sinistra arcobaleno”, in cui si erano collocati tutti quei soggetti, compresi alcuni spezzoni fuoriusciti dai DS o non entrati nel PD. E’ certo la fase folle della scelta di Veltroni dell’”andar da soli” - mentre in realtà va con l’Italia dei valori, che era al 2% all’epoca, poi al 4% con le politiche e adesso è all’8% -, e della “vocazione maggioritaria”, cioè la fase di impazzimento generale, che regala su un piatto d’argento la vittoria a Berlusconi e al centro-destra. Ma in questo impazzimento generale, che del resto per molti aspetti perdura ancora, Berlusconi vive innanzitutto più sugli errori del centro-sinistra che non sulla forza propria.
   Personalmente ritengo inconcepibile pensare che la gente possa votare in maggioranza per il centro-sinistra soltanto perché il centro-sinistra ogni giorno dice che Berlusconi deve dimettersi, e lo dice perché c’è la escort, perché c’è la Noemi, perché c’è la Ruby. Su questo terreno si può “sputtanare” Berlusconi (che comunque si è dimostrato capacissimo di farlo anche da solo…), ma non si costruisce un’alternativa di governo. Comunque, l’anno dopo della sconfitta delle elezioni politiche (e dell’uscita dal Parlamento italiano per la prima volta dal 1987: “errare humanum est”?) c’è un “perseverare diabolicum”: nel 2009,  alle elezioni europee, i Verdi fanno la scelta (anche questa volta col mio totale dissenso), di entrare in “Sinistra e Libertà”: non il partito oggi di Vendola, ma il cartello elettorale che si rifiutò addirittura di mettere la parola “ecologia” nel simbolo. Adesso, che dentro non ci sono più (fortunatamente) i Verdi, la parola ecologia l’hanno messa… Ennesima catastrofe anche alle europee, comunque, determinata anche dal fatto che Veltroni (con Franceschini) e Berlusconi si misero d’accordo negli ultimi due mesi di cambiare improvvisamente la legge elettorale, per completare l’opera di “epurazione” istituzionale: mentre dal 1979 non c’era nessuna soglia, improvvisamente, con un vero e proprio colpo di mano, venne introdotta la soglia del 4%, che non aveva nessun significato in Europa, dove non c’è nessun problema di governabilità (e dove i Verdi comunque sono la quarta forza politica con 57 europarlamentari). In questo modo, oltre ai Verdi italiani, sono scomparsi dal Parlamento europeo non solo comunisti e post-comunisti, ma anche i radicali italiani e gli stessi socialisti. Tacitianamente, “hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato vocazione maggioritaria”, verrebbe da esclamare, anche perché le responsabilità di questa catastrofe annunciata sono ben condivise nel desolante panorama del centro-sinistra italiano.
La svolta di Fiuggi e la “Costituente ecologista”
   Di fronte a questo scenario non esaltante, viene da chiedersi: e adesso che cosa succede? Che possibilità ci sono di costruire un ampio e credibile movimento ecologista anche in Italia? In realtà,  il riferimento costante in questa riflessione critica al quadro europeo fa emergere che le potenzialità di un soggetto politico ecologista laico, aperto, plurale, capace di rapportarsi a tutta la società e di essere innovativo nei contenuti culturali, sono enormi, non solo in Europa, ma anche in molti altri paesi del mondo. I Verdi italiani si sono purtroppo dimostrati inadeguati, radicalmente inadeguati. Per questo è necessario superare i Verdi attuali in una prospettiva ecologista più ampia, dando vita a un nuovo soggetto politico ecologista, che permetta di uscire definitivamente da questi errori storici. Da questa necessità  inizia un nuovo percorso, che è stato individuato nella “Costituente ecologista”. I Verdi, come sono oggi, dopo la svolta salutare, ma assai tardiva, del Congresso di Fiuggi (ottobre 2009), possono e devono essere uno strumento utile e importante al servizio di questa prospettiva strategica della Costituente ecologista. Personalmente spero che da parte dei Verdi italiani - che hanno guardato e guardano con grande interesse al percorso e all’esperienza di Daniel Cohn-Bendit con “Europe Écologie” in Francia - ci sarà l’intelligenza e la volontà di non voler avere un ruolo egemone, di non voler essere loro da soli protagonisti di questa prospettiva, e anzi di avere l’accortezza e la piena disponibilità di costruire insieme a molti altri questo progetto.
   C’è una caratteristica strutturale del sistema politico italiano, e cioè che non è presente nessuna forza politica che sia davvero in grado di rendere “biologicamente degradabili” i Verdi, cioè di poter affermare: “mi sono fatto carico io della questione ecologica”. E purtroppo questo vale prima di tutto per il principale partito del centro-sinistra, cioè per il PD. Il segretario Bersani è apprezzabile per aver chiuso il capitolo dell’”autosufficienza” di Veltroni, ed è positivo che abbia vinto le primarie proprio sulla necessità di rilanciare la politica delle alleanze. Ma poi, nel merito, nei contenuti, quando Bersani parla, pur essendo uomo capace e intelligente, non c’è tanto la sottovalutazione, quanto c’è la totale assenza di qualunque tematica ecologica e di qualunque consapevolezza di che cosa rappresenti e quale centralità abbia la questione ecologica nel mondo di oggi. Neppure nel linguaggio, neanche per ragioni opportunistico-rituali, cita mai - di fianco al lavoro, alla scuola o alla crisi economico-finanziaria -, i cambiamenti climatici, le energie rinnovabili, la raccolta differenziata dei rifiuti, il cambiamento degli stili di vita, che poi sono quelle questioni che colpirebbero anche un po’ la passione e l’umanità dei cittadini. Perché ci vuole anche un po’ di motivazione forte, ci vuole l’agire con il cervello, ma ci vuole inoltre un po’ la capacità di colpire anche le viscere della gente con valori forti, perché oggi le viscere della gente sono colpite in modo regressivo solo dalle campagne xenofobe, razziste, e dalla paura.
Il populismo di sinistra e l’alternativa al berlusconismo
   Rispetto a “Sinistra ecologia e libertà”, al loro recente congresso di Firenze s’è visto rappresentato un filone tradizionale della sinistra comunista e post-comunista e della sinistra sindacale (la FIOM in particolare), con un prevalere del “sinistrese” e del “sindacalese” come linguaggio politico. Lì c’è  un universo culturale e ideologico che è ancora quello della vecchia “sinistra radicale”, sia pure separata oggi da Rifondazione comunista e dai Comunisti Italiani (che insieme hanno costituito ora la Federazione della sinistra). Non mi pare - anche se c’è un certo successo di consenso nei sondaggi, soprattutto legato alla figura di Vendola, che è un personaggio carismatico e che ha un suo ruolo e una sua credibilità - che da lì possa venir fuori nulla di nuovo. E la prova l’abbiamo avuta proprio al congresso di Firenze:  l’intervento congressuale europeo osannato è stato quello del rappresentante della Linke, che è esattamente un partito erede sia dei comunisti della Germania-Est sia della sinistra massimalista separatasi dai socialdemocratici dell’Ovest. Quell’intervento, che ho ascoltato con molta attenzione, è stato molto applaudito, ma mi è parso un intervento politicamente e culturalmente vecchio, rappresentando in Germania, come del resto in Italia, un’area politica e sociale che c’è, ma che è storicamente residuale.
   Per Grillo il ragionamento è diverso: Grillo ha in qualche modo “succhiato” tutti i contenuti ecologisti dei Verdi, ha preso tutto quello che poteva prendere e lo ha trasformato in una sorta di randello da dare in testa al sistema politico esistente. Ma non ha voluto o saputo  trasformarlo in un programma, in una proposta, in una cultura alternativa ecologista di governo, da proporre per salvare l’Italia. In Italia poi c’è un berlusconismo dilagante non solo a destra. Anche a sinistra c’è chi si costruisce un ruolo mediatico e  usa il populismo: lo fa Vendola, in modo più accorto (anche perché ha una responsabilità di governo regionale), lo fa Di Pietro, lo fa Grillo. In Grillo c’è una forte presenza di contenuti ecologici, ma una totale assenza di proposta programmatica, e soprattutto di cultura di governo. Ma non la vuole: dichiara esplicitamente di non volerla. La presenza della lista di Grillo alle elezioni regionali piemontesi del 2010 è stata determinante per far perdere la Bresso.  Possiamo riconoscere sicuramente che gravi errori ne ha fatti anche il centro-sinistra, soprattutto sulla questione della TAV e Grillo ha avuto il successo che ha avuto in Piemonte soprattutto in riferimento critico alla TAV. Però è stato assolutamente indifferente al fatto che quel modo di far politica e quell’essere programmaticamente sganciato da qualunque coalizione è stato determinante per far vincere la Lega e il centro-destra. E la sua risposta, che per un comico è anche  simpatica, ma per un  politico è irresponsabile - “non è vero che io ho fatto perdere la Bresso, è la Bresso che ha fatto perdere me” -, fa capire la totale assenza dell’etica della responsabilità, che secondo me, accanto al principio di precauzione e al principio speranza, è la vera alternativa al fondamentalismo e al populismo anche di sinistra.
   Se, per quanto riguarda il rilancio di un ecologismo politico di dimensione europea anche in Italia, siamo sicuramente soltanto all’inizio (pur dopo un quarto di secolo dalla nascita del movimento verde), in sintesi basterebbe invece dire che siamo di fronte all’inizio della fine del berlusconismo: ma solo all’inizio della fine, non ancora alla fine. Anche nel momento in cui questa fine ci sarà, e prima o poi ci sarà, noi oggi però non sappiamo se ci sarà un centro-sinistra all’altezza di una alternativa di governo, credibile da parte della maggioranza dei cittadini. Col paradosso che c’è il rischio che cada l’attuale governo Berlusconi, che si arrivi prima o poi alle elezioni anticipate, ma che possa vincere questa volta magari un berlusconismo senza Berlusconi! Cosa che non mi auguro, ovviamente, ma perché questo non avvenga c’è ancora molta strada da fare davanti alle forze, grandi e piccole, del centro-sinistra, per ricostruire una proposta programmatica coerente e innovatrice, una credibilità politica, un’alleanza riformatrice plurale, una passione civile che non sia solo la sommatoria degli anti-berlusconiani. In questo scenario di “ricostruzione” – politica, culturale, economica ed anche morale – potrebbe e dovrebbe assumere un suo ruolo significativo anche l’ecologismo politico, con la capacità di indurre finalmente il sistema politico italiano ad essere all’altezza dell’agenda ecologica europea e mondiale.
                                                                                                                              Marco Boato

mercoledì 26 gennaio 2011

Nessun pifferaio magico ci salverà, di Pino Romano, rete Movimenti Civici Sicilia

Prendere il coraggio e andare. Il cambiamento parte da noi

da http://www.gruppocinqueterre.it/node/734

di Pino Romano *
Ormai viviamo un tempo in cui la situazione politica nel Paese si è definitivamente bloccata, incancrenita da giochi di palazzo, attese tattiche, dossier veri o inventati, proclami, illusioni e leaderismi autoreferenziali.
In questo quadro assai poco rassicurante ci sentiamo impotenti, nemmeno speriamo più che sia possibile invertire la rotta. Né individuiamo chi potrebbe aiutarci a invertire la rotta. I politici? Un nuovo messia? L'invisibile mano di un “papa straniero” che tutto aggiusta e a tutto rimedia?
Nessun pifferaio magico ci salverà, non ci rimane che la sicurezza più grande, la forza più potente: contare su noi stessi, ri-mettersi in giogo nella consapevolezza che non saremo soli.
In diverse parti d’Italia, e la Sicilia non fa eccezione, i settori più attivi della società civile cominciano a riunirsi per provare ad organizzare tutti insieme il cambiamento politico nel nostro Paese, creando un’alternativa credibile, seria, affidabile che tutti gli Italiani potranno abbracciare al di là dei rispettivi percorsi politici di provenienza. Per adesso, è quasi un mondo sotterraneo, carsico, che per ovvi motivi non appare sui media ma è numeroso, presente e vivo.
D’altra parte un’attenta analisi della realtà ci dice questo:
Sono sedici anni che Berlusconi imperversa nella politica italiana. In questi sedici anni egli ha governato per otto anni, il resto è governo dei vari centrosinistra. Si può dire che abbiamo dato fiducia  e sperimentato di tutto!
Se solo proviamo a fare un bilancio serio e spassionato di questi sedici anni, scopriremo che: le tasse sono più alte, le pensioni e i salari più poveri ma, contemporaneamente, il debito pubblico e il deficit sono aumentati. I servizi pubblici (sanità, scuola, sussidi sociali) sono stati tagliati ma il taglio ai servizi pubblici non ha prodotto alcun beneficio alle casse dello Stato, la precarietà dilaga, le prospettive di futuro sono cupe, la scuola e l’università hanno dismesso la “vocazione pubblica” per diventare terreno di pascolo di appetiti “privati”, ecclesiali o confindustriali o di qualche fondazione bancaria. Sui diritti civili siamo indietro rispetto agli anni 80, una morsa stringe questo Paese e non gli fa vedere nessun futuro.
Questo il risultato reale, misurabile, concreto, di sedici anni di politica che ruota attorno al peronismo berlusconiano e al suo esatto contrario, chiassoso, litigioso e diviso su tutto, rappresentato dal PD e dintorni, cioè dalla “sinistra che non c’è” o, anche ammettendo che c’è, la “sinistra che non sa cosa essere, cosa fare”.
E’ dunque l’ora di ripartire da “noi stessi”. Verso un soggetto politico nuovo, estraneo a tutte le vecchie logiche partitiche, né a destra né a sinistra, ma semplicemente “oltre”. Capace di portarci fuori dal pantano.
Ricostruire la comunità, ricostruire la cultura, il lavoro e un nuovo sviluppo economico che si regga sulla innovazione e sulla “economia verde” con i suoi tre imprescindibili pilastri: la terra, il sole e l'acqua, ma anche sui concetti virtuosi di “filiera corta”, “zero rifiuti”, “stop al consumo del territorio”. In un rapporto di solidarietà, aiuto e sostegno reciproco, che è l'antitesi di chi ci vuole tutti divisi e individualisti perché le persone divise e individualiste sono i “sudditi-consumatori” per eccellenza, i migliori alleati del sistema che si basa sul lavora, compra e crepa.
Cercare il cambiamento, ma per davvero, perché non esiste un mondo nuovo che non poggi su di una cultura nuova.
Ma cambiare per noi deve significare: fare. Essere e costruire alternativa in ogni gesto, perché ogni gesto è importante. Dal lavoro alla scuola, dall'energia al cibo, dall'acqua all'edilizia. In ogni passo, in ogni circostanza si può fare molto di concreto ed il cambiamento è già a nostra portata di mano.
Non si può più aspettare niente e nessuno. E’ davvero finito il tempo del “ghe pensi mi”. Chi lo ha detto e fatto credere, è colui che ci sta portando tutti al macello.
Non si creda poi al fatto che non ci sono abbastanza soldi, che è tutta colpa della crisi mondiale, che non c'è abbastanza lavoro perché si sono abbassati i consumi e che per fare qualsiasi cosa, qualsiasi passo bisogna porre sempre e solo attenzione al Pil. Qui da noi nell'occidente opulento e stracolmo di vergognosi sprechi di ogni tipo – sprechi di soldi, di cibo, di energia, di acqua, di vita – non ci sono scuse che tengano, le difficoltà si possono affrontare e superare.
Il cambiamento è qui e ora, basta volerlo attuare, giorno per giorno, gesto per gesto. Sta a noi prendere in mano il nostro destino. Ci accorgeremo allora-raccolti intorno a un tavolo- di avere fra di noi molti più punti in comune di quanti non ne abbia mai avuti al proprio interno nessun partito nella storia repubblicana. Ci renderemo conto cioè di avere creato in tutti questi anni di impegno silenzioso, non soltanto un orizzonte di valori comuni, ma anche un vero “programma” di azioni da realizzare per risollevare il Paese, un programma fondato su una visione della società che nessun partito -fino ad ora- ha mai realmente promosso.
Non siamo infatti tutti d’accordo che occorre un grande piano di lotta all’evasione fiscale – agendo sui patrimoni, le rendite finanziarie, le grandi banche – per ridistribuire equamente le risorse, salvare i servizi pubblici, potenziare il lavoro e i sussidi sociali? Non siamo tutti d’accordo che la battaglia per la legalità e contro la corruzione è l’unica strada per ridurre davvero la spesa pubblica, che occorre eliminare il malaffare, finirla con la logica perdente della Grandi opere (= grandi affari = cricche) e investire finalmente in un grande piano di ristrutturazione idro-geologica del territorio? E non pensiamo che occorra difendere con i denti beni comuni essenziali come l’acqua o ragionare seriamente sul ritorno o meno al nucleare? E ancora, non condividiamo la prospettiva di un piano massiccio di investimenti su scuola, ricerca, università per la libertà di insegnamento, di ricerca, dei saperi, fuori dallo scempio degli interessi privati? La riforma della politica con l’eliminazione, drastica, dei privilegi, dei cumuli di mandato, con forme di democrazia “diretta”, anche via web, e di reale controllo popolare?
Si potrebbe continuare, ma qui è necessario solo indicare questioni su cui c’è un ampio consenso. Ci sono in Italia milioni di persone che fanno già questo, che sono già d’accordo.
Ma il teatrino della politica oggi condanna tutti a un’esasperante tattica di attesa, a chiedersi cosa davvero vogliono fare Fini,Casini, Montezemolo o aspettare che D’Alema e Veltroni inizino a giocare l’ultima loro battaglia, da “fratelli-coltelli”, come negli ultimi interminabili vent’anni.  Una concatenazione di elementi negativi che, se non superata, ci condurrà fino alla disfatta.
E allora, iniziamo col realizzare un “movimento senza leader” dove ognuno sceglie consapevolmente di dover fare un passo indietro, per poterne fare dieci avanti tutti insieme. La leadership di questo progetto dovrebbe essere collettiva: chi ha voglia di cimentarsi si metta in gioco e a disposizione, senza rendite né investiture popolari. Una fotografia di gruppo, una democrazia partecipata, con forme nuove da costruire insieme.
Che diventi una Coalizione alternativa, una Intesa Civica capace di un progetto credibile di uscita dalla crisi italiana e di riforma profonda del Paese, che lasci l’attuale opposizione al suo destino e ai suoi giochi distruttivi nell’inutile attesa che riesca a cambiare passo, una coalizione di Cittadini Nuovi che provi a recuperare il tempo perduto, che si fonda su alcuni punti programmatici forti, di prospettiva e di incoraggiamento, e si candidi, a offrire una soluzione alla crisi.
Potrà accadere che non prenderà subito la maggioranza, che inizialmente non avrà grandi numeri, che ci vorrà del tempo, ma comincerà l’opera che non è mai cominciata, per creare un campo d’azione del Lavoro, della Dignità, dei Diritti e dell’Ambiente che metta in rete intelligenze, competenze e progetti e provi a dare una scossa al Paese e lo prepari alla tanto attesa traversata del deserto.
Lo ripeto, senza più aspettare cosa succede nelle opposizioni, nel Pd e nel resto di un centrosinistra conservatore, asfittico e perdente.
Ma così vince Berlusconi, si dirà. Ma ha già vinto, ha già rappresentato la stella polare della nostra vita politica per troppi anni. Gli Italiani hanno già dato! I privilegi, i favori, le benemerenze hanno riguardato però soli alcuni sudditi, i ricchi sempre più ricchi e le concubine del sultano. Gli altri, i più, al contrario, hanno visto la loro esistenza impoverirsi sempre di più.
E’ animati da questo spirito e da questa consapevolezza che, alcuni di noi, in Sicilia hanno già da tempo iniziato un percorso preparatorio, e il 26 e 27 novembre presso l’Aula Magna della Facoltà di Economia e Commercio dell’Università di Palermo hanno dato vita e struttura  Costituente delle Associazioni e dei Movimenti Civici di Sicilia.
In quei due indimenticabili giorni si è concretizzato il sogno di molti, di riannodare le relazioni tra le varie componenti della società civile siciliana, definendo una soggettività politica che vuole dialogare con le forze libere della Sicilia e con i Partiti che intendono riconoscere il ruolo della Società Civile e l' importanza della Democrazia Partecipata, per avere come protagonista esclusivo il Cittadino. Per costruire insieme un nuovo modello di rappresentanza e progettualità politica.
Fino ad oggi la politica ha lavorato per distruggere il tessuto sociale, cercando di strumentalizzare ed isolare le singole realtà sociali, limitandone l'efficacia dell'azione, l’efficacia di proposta e controllo.
Se davvero ci vogliamo dare una chance dal basso occorre fare scelte forti. Un nuovo modo di aggregarsi, con i cittadini protagonisti per un nuovo progetto condiviso, con un nuovo soggetto politico, per la ricostruzione della Speranza.
Se non ora, quando?
* di Movimenti civici Sicilia 

lunedì 24 gennaio 2011

Dal "Contratto per l'Europa" di Europe Ecologie, in vista del conclave di Bologna del 29-30 Gennaio

LA CRISI FINANZIARIA AMERICANA HA CATALIZZATO UNA CRISI SISTEMICA
SENZA PRECEDENTI dal 1929 che ha origine nella prima crisi socio-ecologica del capitalismo.
Questa crisi finanziaria ed economica s'aggiunge alle crisi climatiche, energetiche, alla rarefazione
delle risorse naturali, alla crisi alimentare e a quella della biodiversità. Abbiamo raggiunto il
crepuscolo del modello di sviluppo che domina il mondo da due secoli. Ciò segna un cambio
d'epoca. Un cambio d'era.
LA RECESSIONE ATTUALE COSTITUISCE LA CONSEGUENZA VISIBILE DI QUESTA
CONGIUNZIONE DI CRISI che si alimentano e si amplificano reciprocamente. Milioni di posti di
lavoro stanno per sparire affondando migliaia di  famiglie nella disoccupazione e nella precarietà.
Reagire di fronte a questo tsunami sociale è impossibile ricorrendo alle ricette del passato per
riparare una macchina senza fiato. Investire miliardi per salvare industrie obsolete, inquinanti o
delocalizzabili non serve a niente, se non a prolungare le cause della crisi. La trasformazione è
necessaria. Essa passa dalla conversione ecologica dell'economia, unica risposta responsabile e
globale alla crisi del sistema.
LA NOSTRA STRATEGIA PER L'OCCUPAZIONE SI BASA SU:
· La modernizzazione ecologica dell'economia tramite  la  riconversione dell'insieme delle
attività produttive e di servizi, basata sulla regolazione ecologica e contenente nel suo seno
giacimenti d'impiego  consistenti nelle  energie rinnovabili, nell'edilizia, nei trasporti, in
agricoltura, nella  manutenzione, nel rifornimento dei materiali, nella riparazione, il
riciclaggio, il commercio locale, la ricerca e l'innovazione o la protezione degli ecosistemi;
· La creazione di posti di lavoro socialmente utili e non delocalizzabili, di piccole imprese e
impieghi pubblici locali che permettano di andare verso “le relazioni piuttosto che verso i
beni”, particolarmente per la creazione di un quadro legislativo che sviluppi un terzo settore
europeo dell'economia sociale e solidale che si appoggi sulle associazioni, le cooperative le
società mutue;
· La riduzione dei tempi di lavoro che permette di lavorare tutti, meno e in altro modo;
· L’introduzione in scala europea di una clausola sociale e ambientale fondata  sulle
convenzioni OIT  (Organizzazione internazionale del lavoro)  e dell'ONU che permetta di
sovratassare oppure di proibire l'importazione proveniente da paesi che non le rispettino e di
ostacolare così la delocalizzazione;· L’introduzione del principio di  responsabilità sociale e ambientale delle imprese al fine di
permettere alla collettività (imprenditori salariati, ma anche cittadini, eletti locali,
consumatori e utenti) d'influenzare le scelte fatte dalle imprese;
· La rilocalizzazione dell'economia al fine di sviluppare una politica che favorisca la
(ri)territorializzazione delle attività, intorno a filiere corte, morigerate in emissione di CO2,
generatrici di occupazione locale, che favoriscano le abilità e le identità culturali. La
realizzazione di un fondo europeo delle politiche regionali e territoriali sarà necessaria.

da: http://xsinistraunitaeplurale.it/sinistra/contratto-per-l-europa-di-europeecologie-francia

sabato 22 gennaio 2011

Da Jutta Steigerwald in vista dell'incontro conclave del 29-30 Gennaio “Sostenibilità ambientale: uno sguardo di genere”

“Sostenibilità ambientale: uno sguardo di genere”
Verso una responsabilità condivisa per una sostenibilità ambientale:
Il ruolo delle donne Bolzano, il 31. Ottobre 2003;

Jutta Steigerwald

I. Responsabilità condivisa
II. Sostenibilità ambientale
III. Il ruolo delle donne

Responsabilità condivisa

Come mai prima nella storia umana conosciuta fino ad oggi, il richiamo del “Vertice della Terra” nel 1992 ha
mobilitato cosi tante donne da tutti gli angoli del mondo. Donne impegnate in molteplici movimenti di base ed
associazioni, donne attiviste, donne che lavorano negli organismi non-governativi, questa volta senza la “dipendenza diretta di un finanziamento di progetti”; donne di organismi vari, si sono incontrate per discutere una visione di vita, di società, del mondo, facendovi entrare i sogni di ognuna: un mondo di pace, di giustizia, di libertà, una vita degna e felice per ognuno senza riguardo di classe, di colore, di razza, di sesso. Questi “sogni” comuni sono stati alla base della volontà di comunicare, di ascoltare, di vedere, di dialogare - l’avvio di un processo faticoso ma fertile tra diversi attori.
Il pensiero nuovo e la saggezza introdotti in questo processo si potrebbe descrivere nell’evidenziare la stretta
connessione tra l’economia e l’ecologia, due lati della stessa medaglia, superando il concetto di uno sviluppo inteso come crescita senza riconoscimento di limiti e come sottomissione di tutti gli altri aspetti quali l’ambiente, o meglio la natura, il lavoro, le relazioni, la vita sociale e la cultura.
Questo concetto di sviluppo si basa su valori quali l’ importanza dello sforzo privato, degli interessi privati, del profitto privato, la competizione, l’utilitarismo, il possesso individuale, valori che hanno generato un’ immagine dell’individuo che non ha nessun dovere, nessuna responsabilità verso la società, e ancora di meno verso la natura o l’ambiente.
Questa visione trasforma l’individuo in un risultato dei meccanismi dell’economia del mercato e del lavoro salariato, che come ogni altra merce può essere comprato, venduto, sfruttato, usato, buttato fuori.
La sua attività, produttività e creatività sono misurate nel Prodotto Nazionale Lordo o nella Borsa. L’applicazione di questo concetto ha reso le donne e la natura virtualmente inconoscibili, definendole come le vede e non come sono.
La saggezza introdotta si basa sul riconoscimento delle differenti civiltà del mondo e dei loro ideali e riesce a
combinare dialetticamente e a rispettare la pluralità delle differente società, la loro filosofia, la loro scienza, le loro traduzione e culture. Si scopre che sono radicate nel particolare, nel territorio, e che nello sviluppare un contesto di sincero rispetto e reciproco scambio di esperienze vissute si arriverà a far crescere quei nuovi paradigmi per una responsabilità condivisa.
Chi partecipava nel 1995 qui a Bolzano al seminario “Non si vive solo del mercato”, potrà ricordarsi l’esperienze e la base comune espresse dalle contadine, e dalle persone che lavorano con contadine, provenienti da diversi continenti, da diverse terre e valli del mondo.

Sostenibilità ambientale

L’uso inflazionato della parola sostenibilità e le varie interpretazioni (esistono più di 1000 interpretazioni di sviluppo sostenibile) ha già sorpassato una seria possibilità di una base politica e di un senso comune (responsabilità condivisa). Il concetto dello sviluppo sostenibile era stato proposto ed elaborato all'interno della “famiglia internazionale”, l’ONU, l’unico strumento politico democratico che c’è al livello internazionale. Sostenibilità deriva dal verbo “sostenere” che significa reggere, portar il vero, dar forza, sopportare.
Quali sono le separazioni di fondo delle varie interpretazioni?
Si potrebbe descriverle da un lato “una maschera” sotto la quale si continua come prima (“business as usual”: finché non sono fermati o costretti a cambiare dalla legge, da eventi naturali o da un senso comune dei cittadini espresso in pratiche ed esperienze di nuove possibili vie, come boicottaggi ed altro )
Le altre interpretazioni si basano più sulla “sostenibilità della vita”, cioè uno studio sincero delle interconnessioni nel mondo naturale che crea, produce e rigenera vita senza un minimo spreco di energia e senza creazione di rifiuti, produce e riproduce nei cicli degli eventi naturali. Si cerca in questi processi l’integrazione dell’attività umana sviluppando le sue capacità e creatività.
Tra questi due estremi descritti di interpretazione si trovano certamente tante variazioni e sfumature.
“Da quando lo sviluppo è divenuto il modo deliberato per far dimenticare alle società i loro legami con la terra, ricordare questi legami diviene un atto di resistenza politica e di risanamento ecologico. Esistono processi di conoscenza, processi che cercano la conoscenza attraverso la partecipazione, non il dominio.
Partecipare alla vita di un organismo non è semplicemente un metodo più efficace per conoscerlo, è una fonte di liberazione e di forza per il conoscitore”
(Vandana Shiva: La fine della storia. Il mondo che vive alle spalle del futuro, in
“Azione non-violenta”, Verona, 1992)
La propria scelta di interpretazione si può orientare all’onestà e sincerità delle intenzioni, alla responsabilità verso se stessi e verso gli altri (la ricerca di responsabilità condivisa e partecipata). alla crescita della propria conoscenza.
La precauzione e la comune, ma differenziata responsabilità - due concetti importanti nel risanamento socio-ecologico e le innovazioni necessarie - hanno causato forte resistenza da parte dei paesi industrializzati alla Conferenza sullo “Sviluppo Sostenibile” dell’ONU, tenutasi a Johannesburg l’anno scorso. Saranno le donne di questi paesi ad insegnare ai politici dei propri paesi questa lezione?

Il ruolo delle donne

Le pratiche e il sapere delle donne non si limitano nelle istituzioni. Anzi, le diversità delle attività femminili fuori e dentro le istituzioni sono indispensabili nel costruire una sostenibilità ambientale e nella vita di una società.
L’esperienze fatte in diversi campi, che siano nella agricoltura o nel mondo imprenditoriale, nel sindacato, come insegnanti, nelle aree di salute, nel volontariato, in tante iniziative delle donne o in casa, sono una fonte di ricchezza e di alternative.
In varie occasioni le donne hanno sottolineato priorità per aggiungere ulteriori equilibri verso una vita ed un ambiente sostenibile:
- Rivalutare: Nel rendersi conto che la qualità della vita dipende dallo sviluppo delle relazioni umane, della creatività, delle espressione culturale ed artistiche, della spiritualità, del rispetto per il mondo naturale e la celebrazione della vita, e non dipende da un maggior consumo di beni materiali non essenziali. Analizzare i nostri stessi stili di vita sotto la luce indicata ed impegnarsi personalmente.
-Studiare e sperimentare insieme con vari attori della società nuovi modelli di consumo e di produzione
-Sviluppare e sperimentare nuovi modelli di ricchezza
-Stimolare e prendere conoscenza della situazione e costituire un esempio di un ambiente più equilibrato che rafforzi il senso di comunità, incoraggi la creatività positiva, l’approfondimento delle relazioni interpersonali, e soddisfi le esigenze fisiche, mentali e spirituali di ciascuno
-individuare quale sono i fattori nella vita che veramente portano gioia, salute e soddisfazione
-Ristrutturare e ridistribuire: Influenzare le politiche fiscali, monetarie e commerciali a tutti livelli perché tengano
adeguatamente conto della integrazione dei costi sociali ed ambientali nei prezzi dei prodotti;
-Promuovere la conversione dell’economia che rafforza le economie locali e regionali e la loro autosufficienza
-Sostenere legislazioni che tutelano l’ambiente e il consumatore nell’ avere prodotti sani e sicuri
-Sostenere un turismo responsabile
-Sostenere sistemi di trasporto sostenibili
-Partecipare e sostenere sforzi nei campi educativi e della formazione, nei centri di sapere, della scienza e tecnologia che si possano aprire verso l’esigenze dei cambiamenti
-Impegnarsi per l’integrazione di sistemi di sapere, di tecnologie, di salute sperimentati nel passato o in altre culture che possano complementare e migliorare la qualità di scelta di ognuno e contribuire qualitativamente al benessere e alla salute delle comunità.
-Risanare e Rigenerare, Ridurre e Riutilizzare: Ridurre e risanare l’impatto delle agricolture industrializzate, coltivando prodotti adatti al territorio e al clima, dare priorità nel commercio ai prodotti locali, regionali, nazionali, consumando cibi prodotti localmente, possibilmente con metodi organici
-ridurre il consumo di energie in genere e di energia prodotto da fonti non-rinnovabili in particolare e sostenere fonti di energie rinnovabili
-Ridurre inquinamento e rifiuti
-Riciclare dovunque è possibile

Un nuovo patto con la Natura e la Cultura

Le donne sono coscienti che i problemi ambientali sono una misura della dimensione etica della nostra civiltà. Gli interessi e i valori delle donne sono sempre stati strettamente legati ai concetti di interdipendenza e di
armonia. Possiamo perciò richiamarci anche in un nuovo patto con la Natura e la Cultura.
Però ci si deve disfare dai paradigmi di deterioramento, esclusione e distruzione della vita. Invece, in quanto corpi viventi e pensanti, noi esseri umani siamo da una parte prodotti della natura, siamo tutti parte
della natura, e dall’altra parte siamo gli unici soggetti etici in grado di comprendere il principio della natura di se stessi. Quindi, in quanto donne e uomini, siamo tutti chiamati a riconoscere reciprocamente il
significato delle differenze del genere.
* * * * *

Contributo di Massimo Marino in vista dell'incontro-conclave del 29-30 Gennaio a Bologna

Partiti, movimenti, reti

   di Massimo Marino
Esistono ancora i Partiti in Italia, quanti sono, chi o cosa rappresentano, su cosa si dividono, hanno obiettivi che riguardano il paese o sono autoreferenziali, sono ancora utili, è possibile oggi allearsi con qualcuno di loro?
Quali e quanti sono i movimenti che aspirano al cambiamento, chi rappresentano, perché sono divisi, che cosa impedisce la loro unione, hanno un peso e quale nella società italiana, sono in grado di cambiare il paese, gli interessa, con quale percorso possono farlo?
Per discuterne è ben cominciare dall’inizio.
1    Già Max Weber, sociologo tedesco, agli inizi del ‘900 affermava con chiarezza che il ruolo dei partiti era quello di ottenere il controllo del governo (e prima del parlamento), dare il potere ai loro capi (leader), ottenere vantaggi (personali e di gruppo).
Contemporaneamente garantire forme di controllo dei governati sui governanti, mediare quindi fra Cittadini e Stato, educare tutti alla democrazia rappresentativa. Sebbene influenzato da Marx ciò  non lo portava all’idea che questo percorso in parte virtuoso potesse risultare insopportabile per questa o quella area o classe sociale  e spingere necessariamente a scelte rivoluzionarie.
Maurice Duverger, giurista francese, qualche decennio dopo chiariva già che i sistemi elettorali hanno grande influenza sul sistema dei partiti e sulla politica (fino a determinarne le caratteristiche). In particolare chiarendo che i sistemi maggioritari ( specie se a turno unico) spingono al bipolarismo, quelli proporzionali al multipartitismo. Fuori dal regime democratico i sistemi autoritari spingono, ovviamente, al partito unico. Per quanto in paesi dell’area anglosassone e non solo si facesse strada il sistema dei collegi uninominali ( strumentalmente giustificati da esigenze di stabilità) Duverger ammette che nella maggior parte dei paesi il sistema della democrazia è quello del proporzionalismo e quindi del tendenziale pluralismo.
Il nostro Giovanni Sartori, andando per le spiccie, sostiene da tempo che i partiti che contano sono quelli che hanno potere di ricatto, cioè che sono determinanti per promuovere coalizioni di governo, ( potenziale di governo e di ricatto) quindi devono essere medio-grandi; quelli piccoli o che comunque non vogliono governare, (irresponsabili o antagonisti) non servono, quindi tantovale trovare il sistema per eliminarli.
Secondo Sartori sopra i 5 partiti si passa dal pluralismo moderato al pluralismo polarizzato, con presenze antisistema, centro occupato, partiti irresponsabili; pessima situazione (secondo lui) che da anni propina ( per giunta a pagamento) la sua idea singolare di democrazia nelle TV e nei giornali da noi finanziati .
Stein Rokkan, politologo norvegese, una trentina di anni fa affermò che l’origine genetica dei partiti è il prodotto di fratture sociali ( cleavages ), che hanno origini in interessi materiali e/o ideologici di gruppi sociali contrapposti, di 4 possibili tipi: Capitale/Lavoro, Stato/Chiesa, Centro/Periferia, Città/Campagna. I “costruttori della nazione” di Rokken, che potremmo un po’ più brutalmente chiamare da noi “quelli che hanno il potere vero nelle mani “, nei momenti di fratture si alleano inevitabilmente ad uno o più di questi poli a discapito degli altri per sopravvivere alla crisi. 
2    I partiti socialisti e poi quelli comunisti nei primi decenni del secolo scorso si strutturarono in modo esplicito a difesa, o almeno in rappresentanza, di strati o classi sociali  contro altri strati e classi mantenendo, ed anzi privilegiando, la conquista della maggioranza e del potere in forme parlamentari o rivoluzionarie come proprio obiettivo primario; l’organizzazione nel territorio (cellulesezioni o simili ) si esprimeva con una struttura sostanzialmente a piramide che nelle parti alte prevedeva un Comitato centrale, una segreteria più ristretta (ufficio politico)  ed un unico leader (segretario ), normalmente maschio. Le decisioni strategiche di fondo si prendevano in Congressi; il finanziamento era, in parte più o meno rilevante, autofinanziamento. Da questo Partito organizzativo si distingueva nettamente quello elettorale americano dove la struttura era evanescente e si riaggregava al momento elettorale come strumento principale per la raccolta di fondi per la campagna elettorale. A sé restavano i partiti di tipo autoritario e fascista dove è sempre prevalsa  la connotazione organizzativa della milizia  fortemente gerarchica e più o meno militarizzata per rispondere o promuovere attacchi  agli avversari (qualche elemento pur sfumato, ne è stato assunto, oltre che dal vecchio MSI,  anche dalla Lega Nord italiana ).
Con le dovute differenze questo è il quadro classico della strutturazione dei partiti nel mondo occidentale e non solo, con la sostanziale, e non piccola eccezione di partiti o movimenti politico-religiosi (islamici  e a volte fondamentalisti eintegralisti ) in Medio Oriente ma anche in alcune zone dell’Asia e dell’Africa; in quest’ ultima a volte intrecciati a strutture preesistenti di origine tribale.
3     L’Italia uscita dalla IIa guerra mondiale con il concorso di tutte le forze politiche, dai monarchici ai  comunisti (con la sola eccezione del partito fascista fuorilegge), definì nella carta costituzionale il diritto alla libera associazione politica dei cittadini con l’art.49 ( "tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale" ). Non seguì, come per i sindacati, alcuna legge attuativa, lasciando la più ampia libertà organizzativa interna ai partiti, specie sulle forme con cui regolare la partecipazione democratica al loro interno e sulle forme di finanziamento, progressivamente attribuite allo Stato in proporzione al loro peso elettorale ( finanziamento pubblico). Oggi accedono ai rimborsi elettorali , al di là di avere o no eletti, tutti i partiti che raggiungono l’1%, regola che in casi ripetuti e noti ha portato al fenomeno di piccole liste inventate che si sono presentate ad hoc per guadagnare soldi.
Fino alla fine degli anni ’60 l’azione politica si espresse in queste forme ( partito, parlamento, piramide ).
Le prime forme nuove di diversa espressione della politica si manifestarono con imovimenti studenteschi ( ’68 ) che, pur privi di comunicazione fra loro ( non c’era la rete, ne il cellulare ed erano  ancora limitate le potenzialità del telefono e della TV ) esplosero in tutte le parti del mondo ( dall’Europa, agli Stati uniti, dal Giappone al Messico, dalla Jugoslavia all’Iran, comprese aree asiatiche e africane ) con una comune connotazione antiautoritaria ed egualitaria, con una accentuazione dei  diritti individuali e collettivi sui temi dell’ istruzione, della cultura, di più liberi costumi e della libertà e autodeterminazione individuale e sessuale per tutti ( vedi il femminismo ). Solo in un secondo momento parte di questi movimenti assunsero una connotazione di sinistra, adottarono forme organizzate più o meno tradizionali di partito, mantenendo in prevalenza una connotazione extraparlamentare. In qualche modo questa fase si esaurì nella seconda metà degli anni ’70 con lo scioglimento ( non ufficiale ma di fatto ) di Lotta Continua al 2° congresso di Rimini nel novembre 1976, con un limitato sviluppo successivo dei gruppi dell’autonomia operaia e derive di lotta armata ( Brigate Rosse e Prima linea). Si tornò alla riassunzione nei partiti delle espressioni formali della politica pur con l’avvio di nuove forme, comitati e associazioni non politiche, prevalentemente ambientaliste, pacifiste, animaliste,  in misura minore  nonviolente.
Alla fine degli anni ’90 il successivo movimento internazionale No-global,antiliberista e pacifista, ha solo sfiorato l’Italia, rapidamente rinsecchito dall’estrema sinistra dei piccoli leader alla Casarini e Caruso, dai manganelli di Fini al G8 di Genova del 2001, dall’ operazione Cofferati, probabilmente condotta a tavolino in qualche redazione di giornale, che ha finito di demolirlo prima di finire la sua carriera politica a fare il sindaco di Bologna per conto dei DS  dell’epoca e infine parcheggiato in pensione al parlamento europeo.
Già dalla fine degli anni ’70 risultava però evidente l’incapacità del sistema dei partiti, di destra, centro e sinistra, ad esprimere progetti riformatori ed innovatori attinenti ai diritti generali od alla tutela del territorio (aggredito negli anni ‘60 da una prima ondata di cementificazioni senza precedenti). Riforme in qualche modo attinenti ai diritti come lo Statuto dei Lavoratori (1970) o la legge sull’ Aborto e laLegge Basaglia (1978) furono più il prodotto di movimenti sociali e di lotte che di una volontà riformatrice dei principali partiti italiani che avviavano il processo diautoreferenzialità, assunzione di interessi esterni e non dichiaratiperdita di referenti socialidiminuzione delle differenze, con una progressiva concorrenza a porsi come interlocutori di poteri forti (economici, finanziari, parastatali ) per fare od ottenere le stesse cose  o cose sempre più simili.
4    Almeno in Italia il primo tentativo di innovazione e allontanamento dal tradizionale sistema dei partiti si ebbe nella metà degli anni ’80 con la nascita delle Liste Verdi (comunali) e la loro unione sul territorio nazionale (congresso di Finale Ligure nel novembre 1986).
L’innovazione riguardava diversi piani di riferimento:
1) L’autonomia politica dell’organizzazione locale ( Liste Verdi comunali e almeno negli intenti, dei loro coordinamenti regionali chiamati Federazioni regionali).  2) Il riferimento non a strati sociali o classi o gruppi di interesse ma ai destini ed alla tutela del territorio, in generale del pianeta, ed alla qualità della vita di tutti i cittadini. 3) L’assunzione degli interessi anche delle altre specie viventi, animali e vegetali  4) Il rifiuto della violenza  come strumento di azione o di conquista del potere, più in generale della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali, inter-raziali, inter-religiose. 5) L’obiettivo di cambiare la politica e contestare o  limitare il professionismo politico.  6) Una proiezione europea ed europeista in accordo con movimenti simili nel resto dell’Europa, in particolare nella fase iniziale della Germania (anche se le prime esperienze simili erano nate in Inghilterra). La differenza con la tradizione si manifestava anche in una forma non piramidale dell’organizzazione che fino al 1992 non aveva un leader (segretario) ma un coordinamento nazionale (11 membri). Con le elezioni europee del 1989 (2 anni dopo il referendum antinucleare vinto ) si ebbe il risultato elettorale più alto (3,8% dei Verdi e 2,4% dei Verdi Arcobaleno che nel dicembre 1990 si unirono a Castrocaro).
Nella prima metà degli anni ’90 i principali partiti avviarono progressive modifiche e differenziazioni dei sistemi elettorali verso sistemi misti che aprirono il varco alsistema maggioritario (con il referendum del 1993 per il Senato ) e con le conseguenti leggi 276 (Senato) e 277 (Camera) .
Il premio di maggioranza per la coalizione vincente alla Camera ( senza precedenti nel contesto europeo) era già apparso in due leggi elettorali italiane del passato: la legge fascista  Acerbo del 1923 e la cosiddetta "legge truffa" del 1953, che vennero peggiorate.
L’esperienza innovativa dei Verdi si esaurì rapidamente, con la rinuncia ad una vera autonomia delle Federazioni regionali, mai attuata se non di fatto nell’area Trentina e nel Sud Tirolo (anche con un diverso simbolo), il ritorno di fatto al sistema a piramide (con la nascita del Portavoce  poi Presidente nazionale ), l’abolizione delle clausole antiprofessionismo.
L’ immediato ridimensionamento elettorale che li mantenne stabilmente sempre al di sotto del 3% per tutto il decennio successivo, e tendendo poi ancora al ribasso, portò i Verdi rapidamente alla perdita di autonomia, ad alleanze forzose nel cosiddetto centro-sinistra che partoriva i Progressisti (1994), l’ Ulivo (dal 1996 ), l’Unione (2005). L’alleanza in posizione subordinata avviò il progressivo sfaldamento dei Verdi con abbandoni crescenti verso i partiti, prevalentemente di sinistra, con l’appiattimento progressivo in un area innaturale di estrema sinistra, con l’abbandono da parte di migliaia di aderenti.
La presenza nelle coalizioni, a volte vincenti, assicurava la sopravvivenza di piccoli drappelli di eletti , la  presenza anche nel governo nel primo (1996) e secondo (2006)  governo Prodi, risorse economiche per garantire un piccolo apparato centrale mentre si spegnevano tutte le innovazioni promosse o dichiarate inizialmente ( Università Verdi, Banche etiche, Campagne nazionali, elaborazione culturale, non professionismo, etc ) fino alla sostanziale scomparsa come forza politica nazionale di rilievo negli ultimi 10 anni ed alla scissione verso Sinistra e Libertà del 2009 ( congresso di Fiuggi ). Un epilogo singolare nel periodo in cui le forze ecologiste nel resto del mondo, caratterizzandosi come polo autonomo, avviavano una straordinaria espansione. 
Un secondo tentativo di innovazione è avvenuto negli anni più recenti per iniziativa di Beppe Grillo avviata con la collaborazione, iniziata nel 2005, della Società Casaleggio Associati, che da allora amministra tutta l’attività di Grillo ( e più recentemente di parte dell’attività in rete di Di Pietro ); dagli spettacoli alla diffusione di libri e DVD fino alla nascita e gestione dei Meet-up, circa 400 oggi che, basandosi sulla comunicazione in Rete, hanno progressivamente assunto il ruolo di “sezioni locali” di un movimento politico che ha iniziato seppure in modo limitato e frammentato a presentarsi nelle elezioni di alcuni comuni, in qualche provincia, sostenendo alcuni candidati indipendenti nelle liste dell’Italia dei Valori alle ultime elezioni europee ( eleggendo De Magistris e Sonia Alfano poi passati all’IdV ). Per quanto ultimamente rappresentato con qualche peso nei sondaggi nazionali (2-4% cioè ai limiti del quorum, almeno per la Camera ) il Movimento 5 Stelle non sembra in grado ( sembra per ammissione, seppure non pubblica, dello stesso Grillo ) di avere una presenza alle elezioni politiche, che, nel caso fossero imminenti, probabilmente non lo vedrebbero partecipare.
Il movimento di Grillo, il quale già dagli anni ’70 aveva espresso una forte vocazione “ecologista”, ha assunto prevalentemente una “ connotazione anticasta” (con un approccio mediatico populista)  cioè ostile all’intero sistema dei partiti ed il rifiuto a priori di qualunque possibilità di alleanze elettorali. Sul piano organizzativo la proposta organizzativa di M5Stelle si presenta con una apparente connotazione a rete sul territorio, priva di sistemi gerarchici locali ufficiali, con legami fra i nodi comunali (meet-up) praticamente assenti e garantiti  di fatto da Grillo stesso che amministra la concessione del simbolo, stabilisce momenti e campagne nazionali (Vday e meeting nazionali), rifiuta i rimborsi elettorali. Una rete puntiforme con deboli connessioni fra i punti ed un unico apice che le collega rappresentato da Grillo stesso e tecnicamente dal suo staff e dalla Casaleggio.
Per quanto l’iniziativa di Grillo e del suo movimento abbia avuto in più occasioni un ruolo estremamente positivo nella denuncia delle degenerazioni in atto nel sistema dei partiti italiani, nei suoi legami con apparati corrotti o corruttivi, nelle complicità e uniformazione nei loro comportamenti, è possibile che, paradossalmente, le prossime scadenze elettorali comunali possano rappresentare il momento più alto di successo elettorale del movimento e contemporaneamente l’avvio della sua disgregazione, già in atto in diverse realtà, a meno che Grillo non maturi nuove forme più democratiche di organizzazione interna, non affronti il problema delle alleanze con le aree sensibili ai temi ecologisti, civici e anticasta, non introduca elementi di vera innovazione e democrazia  nelle strutture  locali, regionali e nazionali del movimento.
5     Non ci sono stati, negli ultimi 2 decenni, altri tentativi di un certo rilievo di promuovere innovazioni politico-culturali correlate a nuove sperimentazioni dell’organizzazione, della partecipazione diretta, della democrazia esercitata in qualche modo da settori ampi della società italiana.
 Fuori dalla sfera della partecipazione diretta all’impegno politico-istituzionale si sono avute alcune esperienze di rilievo che hanno tentato un impegno politico-sociale fuori dalle istituzioni utilizzando il modello della “rete diffusa”. La più nota è stata Rete Lilliput, coordinamento di gruppi diversi, fondata  evitando la strada tradizionale delle strutture gerarchiche interne, rifiutando  la personalizzazione e la professionalizzazione dell’impegno politico, concentrando nei nodi locali e nelle loro attività l’aggregazione delle persone, unite solo da un Manifesto di intenti e da alcune campagne nazionali (Il Tavolo delle Campagne). Nata alla fine del 2000 con l’adesione di una quindicina di gruppi preesistenti, prevalentemente di area cattolica ( Mani Tese, Nigrizia, Beati i Costruttori di Pace…), Rete Lilliput è durata per parecchi anni, praticamente fino al 2008 quando è stato di fatto costatato in qualche modo se non il fallimento, almeno l’esaurirsi del tentativo fatto e la scarsa incisione nella società italiana. Altri tentativi più piccoli, come il recente Movimento dei Movimenti in Piemonte, sembrano ripercorrere la stessa strada e lo stesso limite di fondo: il rapporto ambiguo e irrisolto con il sistema dei partiti, con l’illusoria intenzione di condizionarli da fuori, e la mancata risoluzione della forma da dare all’organizzazione della iniziativa.
Il sostanziale fallimento di Rete Lilliput e di molte altre esperienze simili e più piccole, oltre ad uno strascico di delusioni e abbandoni, ha riaperto, sebbene in ambiti molto ristretti, il dibattito su partiti, movimenti e reti, nel  quali di indubbia utilità quello in parte circoscritto alle reti di economia solidale (es Davide Biolghini ed alcuni altri ). In altri casi ponendo invece accenti molto critici alla formula delle reti e rischiando di riproporre di fatto la vecchia alternativa: definizione di alcuni assiomi rigidamente circoscritti, strutture organizzative che tendono a riproporre la piramide, referenti sociali e territoriali molto esigui (utili, sebbene molto discutibili, per questa riflessione, alcuni interventi su MegaChip di Giulietto Chiesa ed altri ). Il fallimento della esperienza dei Verdi a cavallo degli anni 80-90 , la palese difficoltà in cui annaspano i meet-up di Grillo (con il pregio di portare alla politica diretta alcune migliaia di giovani normalmente ostili a questo tipo di impegno ), l’inadeguatezza della proposta delle reti, dentro e fuori l’impegno politico-istituzionale diretto, non hanno impedito il proliferare, negli ultimi 10 anni , di esperienze civiche (in genere autodefinitesi “liste civiche” )  che in molti casi hanno affrontato anche il livello elettorale locale con frequenti risultati di un certo rilievo. La novità recente è una nuova attenzione a superare l’ambito locale e cercare nuove forme di organizzazione regionale o nazionale, riaprendo un dibattito più ampio sui temi che qui si sono affrontati.
6     In Italia ci sono quindi almeno 8 Partiti che si possono definire nazionali e forse anche  influenti ( PDL, Lega Nord, FeL, UDC, PD, IdV, SeL, M5Stelle ) dei quali almeno 5 sono potenzialmente al limite della rappresentanza (3-5%) che li può rendere ininfluenti secondo gli spietati criteri del nostro simpatico Sartori; ce ne sono altri 5-6  che hanno probabilmente terminato il loro percorso storico e non sono più in grado di interferire in alcun modo, da soli, sul sistema politico e sulla società italiana ( Fed Sinistra, Verdi, Radicali, Socialisti , API, Destra ); ci sono in aggiunta alcuni partiti significativi di ambito regionale ( SVP, Mov. delle Autonomie, Union Valdotaine ) e una decina almeno di micropartiti. Un eccesso esorbitante di offerta politica che nel suo insieme dà da tempo un penoso spettacolo, viene un po’ sbrigativamente liquidato da milioni di italiani come “la casta “ o simili e non sembra affatto soddisfare la domanda dei cittadini, tant’è che fra il 30-35% almeno degli elettori è sempre più stabilmente assenteista. I due partiti principali, PDL e PD (alla faccia del cosiddetto “bipolarismo” ), sommati insieme sono votati dal 25-40% degli elettori totali a seconda dei casi. A Torino il dato paradossale della telenovela infinita delle primarie comunali del PD e dintorni è che gli iscritti al partito che governa (malamente) e controlla (rigidamente) da anni rilevanti capisaldi istituzionali, economici, dei media che contano  della città, sono 3500 su quasi un milione di abitanti.
Di contro ci sono nel paese molte centinaia, forse migliaia, di comitati, gruppi, associazioni, liste civiche che operano fuori o ai margini del sistema politico. La maggior parte di questi per la loro connotazione, storia, attività sono ascrivibili ad un area ampia che potremmo chiamare civica, ambientalista, animalista, anticasta, e in parte anche non votante; qualche milione di persone potenzialmente che non ha rappresentanza politica, la rifiuta o sceglie di volta in volta, senza alcuna affezione, “il meno peggio”. In vari altri paesi europei questa moltitudine di persone e di gruppi ha trovato, almeno in parte, un riferimento, che si sta consolidando ed espandendo, nelle forze ecologiste e verdi che infatti, dopo conservatori e socialdemocratici si stanno sempre più collocando come terzo polo nell’ambito politico-culturale europeo e non solo nell’ambito europeo. 
L’aggregazione progressiva di parti significative di questa enorme moltitudine attiva, passiva e non rappresentata passa attraverso alcuni prerequisiti iniziali che in presenza di un progetto e di protagonisti adeguati può dargli rappresentanza e dargli la possibilità di essere soggetto del cambiamento  facendo uscire l’Italia dal suo cristallizzato medioevo ed aprire un nuovo rinascimento:
1) l’idea di una conversione ecologica dell’economia che abbandoni il paradigma della crescita e sviluppi nuove opportunità economiche e di lavoro nei settori produttivi ecorientati
2) un progetto riformatore innovativo che prefiguri un Italia più giusta ed egualitaria (mercato del lavoro, giustizia, informazione, casta), anche  facendo propri temi “sociali” impropriamente attribuiti alla “sinistra” che li ha per giunta in gran parte abbandonati, ma che hanno in realtà una valenza di base nella storia moderna dell’ umanità e che restano e resteranno centrali anche al di là di una possibile totale scomparsa della sinistra nelle sue più diverse sfumature.  
3) la promozione di un movimento di liberazione nazionale che cancelli corruzione, mafie, clientelismo, inefficenza degli apparati statali.
4) un riferimento esplicito alle forze ecologiste ( europeiste, pacifiste, nonviolente ) perché è necessaria una chiara identità e in Europa non ce ne sono altre che hanno questa comune e così condivisibile matrice programmatica.
Per promuovere realmente l’avvio di questo percorso di transizione sembrano inevitabili alcuni capisaldi e prerequisiti che lo tengano in piedi:
1) una vocazione pluralista e maggioritaria che permetta convivenza e sinergia di frammenti culturali, diversi ma non antagonisti, che si accettino a vicenda e definiscano insieme i “paletti” essenziali, che sono ovviamente necessari, che circoscrivano le aree sociali, economiche, culturali ma anche generazionali che sono compatibili e che possano convivere e sostenere uniti anche stili di vita e di rapporti sociali e personali nuovi e condivisi.
 2) il superamento, lo scioglimento, la rigenerazione ed una nuova coagulazione di gruppi e organizzazioni preesistenti liberando nuove forze prive di tare del passato che frenano l’innovazione necessaria, requisito di base di un nuovo movimento sociale nascente. Raggiungere la massa critica iniziale e costituente della aggregazione è indispensabile per attrarre e sussumere energie che, nell’anomalo quadro sociale italiano, si sono aggregate in contenitori provvisori, che hanno in comune una crescente vocazione populista e personalista, privi di retroterra culturale europeo come IdV, SeL ( che in realtà non è neanche la die linke italiana ) e lo stesso movimento di Grillo.    
 3) la tessitura della pluralità di esperienze esistenti in una nuova Rete organizzata in forma di movimento politico nazionale che connetta individui, territori, esperienze e culture compatibili, le unisca fisicamente in nodi territoriali multifunzionali che noi chiamiamo ecoHub ed usi ampiamente la rete web come forma di organizzazione nel territorio; un movimento politico che, attraverso unatavola delle regole  distribuisca con precisione ruoli, iniziative, poteri decisionali, in nodi organizzativamente autonomi ma coordinati sul piano locale (comunale o inter e sub comunale ) regionale, nazionale, ognuno dei quali debba esprimere leaderchip collettive ed autonome ma insieme federate in un unico movimento politico nazionale. L’esperienza dei grunen tedeschi e l’approccio pragmatico diCohn Bendit, pressocchè sconosciuti in Italia anche nel mondo ecologista, sono contributi di grande utilità che vanno conosciuti, discussi, approfonditi   e adattati in modo originale  alla realtà anomala italiana.   
 4) la costruzione del progetto di trasformazione fin dall’inizio su quattro gambe che lo facciano permeare in tutto l’insieme della società: quella economica, politica, sociale, culturale. Un approccio che veda nella presenza nelle istituzioni e nell’obiettivo del governo, che ovviamente sono obiettivi da perseguire, solo uno degli strumenti (non un fine) per la trasformazione sociale, alla pari e in parallelo agli altri terreni di innovazione; in particolare la costruzione di segmenti diffusi dialtra società nell’economia, nella cultura, nella vita quotidiana, nei comportamenti individuali.   
Il superamento del “leader”, della organizzazione “piramidale” e del “ professionismo politico“ sono alcuni dei bioindicatori iniziali che misurano l’originalità del percorso.