lunedì 3 maggio 2010

CURARE nelle DISEGUAGLIANZE

Iniziamo a pubblicare interventi e materiali apparsi su riviste o siti web per offrire una base teorica ed empirica, quindi pratica e vicina alle vite di ciascuno e che possano aiutare a dare gambe alle idee per il dibattito della costituente. Come “militanti della persona quotidiana” dovremo saper parlare e proporre temi concreti. Come ecologisti dobbiamo ritrovare un discorso pubblico per sapere come dire le cose che riteniamo giuste. E molto viene prodotto, studiato, letto fuori dalla grande stampa. Quindi buona lettura e buona discussione. Quello che segue è un intervento apparso sulla rivista Lo Straniero e fa parte di una riflessione più ampia sulla SALUTE e la CURA, che viene svolta nel numero di aprile a partire dalla pubblicazione in italiano del 2° Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale.

AVERE O NON AVERE di Francesco Ciafaloni

[da Lo Straniero n. 118 aprile 2010]

Il problema veramente è essere o non essere; vivere o morire; come vivere; come e quando morire; come curare chi si ammala e rischia di morire; come aggiungere alla cura il conforto. Ma il vivere e il morire dipendono soprattutto dall’avere o non avere. “Viaggiando in metro sulla linea che dai sobborghi di Washington conduce a Montgomery County, una distanza di 12 miglia, la speranza di vita aumenta di un anno e mezzo per ogni miglio percorso: a un capo del viaggio troviamo neri poveri con una speranza di vita di 57 anni e all’altro capo bianchi ricchi con una speranza di vita di 76,7 anni.” (A caro prezzo. Le diseguaglianze nella salute. 2° Rapporto dell’Osservatorio Italiano sulla Salute Globale, Edizioni ETS, Pisa 2006, p. 227).

In Italia i disoccupati vivono sette anni di meno degli occupati; i preti e gli insegnanti vari anni di più dei lavoratori manuali, nel loro complesso, non solo quelli che muoiono di incidenti e malattie professionali. Se non ci si limita a una sola città, o a un solo paese, come è noto, le differenze sono ancora maggiori. Dalla stessa fonte si apprende che la mortalità infantile è del 360 per mille in Sierra Leone o in Afghanistan, del 3 per mille in Norvegia e Finlandia. Dai dati Eurostat apprendiamo che è intorno al 3 per mille anche in Italia, Germania, Francia; che è addirittura minore nella Repubblica ceca, paese ex-comunista; ma è doppia in Lussemburgo, che ex-comunista non è, e più che tripla in Romania. E la spesa sanitaria rappresenta il 16% del Pil negli Stati Uniti, dove si muore prima, in maniera straordinariamente diseguale, e una quarantina di milioni di persone sono prive di cure sanitarie, solo il 7-8% in Italia, e percentuali appena maggiori in Germania, Francia, Gran Bretagna, dove si muore dopo e il sistema sanitario, con strutture diverse, è universalistico.

Dunque la politica, l’intervento pubblico, la solidarietà, il dono, hanno effetti misurabili, addirittura sconvolgenti, sul vivere e sul morire, anche a parità di reddito. E l’Onu elabora indicatori di sviluppo umano, di cui il reddito è solo uno, tradotti in italiano da Rosenberg & Sellier. Certo, ci sono limiti alla efficacia delle cure; ce ne sono anche agli effetti sulla salute della prevenzione, o, detto diversamente, della vita morigerata e virtuosa, anche senza tener conto della genetica, che predispone anche se non determina. Gli uomini sono mortali, per fortuna, dato che nascono e si riproducono. Se una modificazione genetica, casuale o progettata, ci rendesse pressoché immortali, bisognerebbe augurarsi che ci rendesse anche pressoché sterili. Certo toglierebbe ogni significato al “ci”. Gli immortali non possono amare i mortali; chi ha voluto farlo, si chiamasse Gesù o Faust, ha accettato di morire. Nell’immediato, ogni trionfo medico su una specifica patologia non fa che spostare percentuali da una patologia all’altra, perché il totale deve sempre essere 100. Di qualcosa bisogna morire. Alla fine il compianto, la memoria, sostituiscono per forza il conforto e la cura.
Ma, prima di arrivare all’elogio di I sepolcri, ci sono da evitare molte atrocità che dipendono rozzamente dall’avere o non avere. C’è da evitare l’imitazione dei ricchi peggiori, la corsa al mercato, alla pura, voluta dipendenza dall’avere o non avere.

Non è solo un problema di principi, o ideologico; di comportamento personale o di confronto tra sistemi. è anche questo ma non solo. Il Sistema sanitario nazionale è regionalizzato e ha costi ed efficacia molto diversi da regione a regione. Il peso delle cliniche private in Lombardia è molto maggiore che in Piemonte. Gli accordi per le regionali, le alleanze, i programmi di cui non si parla nella pubblicità sui muri, riguardano il rapporto tra sanità pubblica e cliniche private. Di corruzione sanitaria in Abruzzo, in Puglia, in Campania, in Calabria, in Sicilia; di delinquenza sanitaria in Lombardia sono pieni i giornali e i tribunali. Di possibili interessi sanitari di assessori in pectore si parla per la destra e per la sinistra, anche in Piemonte. Qualche unione personale in più, il partito degli affari si consolida, lo stato e i malati pagano. Le cose non vanno bene, in molti posti si ruba, comprando a prezzi gonfiati anche la mortadella, o appaltando a se stessi, ad amici, a parenti; ma, se si cerca di rimediare privatizzando, possono andare anche molto peggio, e a costi maggiori.
La situazione diventerebbe tragica e non solo grave se l’universalità della cura venisse meno; se si verificasse, e per cifre assai maggiori, anche nella sanità ciò che sta avvenendo nella scuola: il finanziamento pubblico ai privati, battezzato libertà di scelta. Ci possono essere modalità compresenti, come in Francia, dove coesistono un sistema mutualistico, uno pubblico e uno privato, senza gravi inconvenienti e, qualche volta, con maggiore flessibilità. Ma un sistema mutualistico diffuso, che lì ha radici negli anni trenta, nel Fronte popolare, non si improvvisa. Qui si rischia di pagare a pié di lista, e a costi crescenti, trattamenti medici e medicine promossi e pubblicizzati, e decisi, alla fine, da medici a caccia di patologie come risorse, scarse come si è visto a Milano. Certo, dovrebbe essere sempre il malato che decide; e sulla carta lo è, fino a che è cosciente. Ma chi rischia la propria vita o quella di un congiunto contro il parere del medico che gli dice che quella è la cosa migliore da fare? Il rapporto tra medico e paziente è un rapporto di potere strutturalmente sbilanciato, tra chi sa ed è sano e chi non sa ed è malato, e rischia la morte. Le medicine non sono come giorni di vacanza in un qualche posto di vacanza, che più crescono e meglio è. La vita e il corpo degli uomini dovrebbero essere sottratti al mercato, anche perché chi rischia la morte, o l’invalidità, quasi sempre non conosce e può non essere in grado di capire cosa rischia davvero. Anche il medico, certo, opera sempre in condizioni di parziale incertezza: può operare al meglio, in totale onestà, ma può sbagliare; può avere interessi professionali; ha sempre un interesse economico; e non è lui che rischia. Robert Fogel, storico controfattuale, noto soprattutto per gli studi sulla schiavitù e le ferrovie, ha esercitato il proprio talento sul futuro, prima dell’attuale tracollo, sostenendo che le spese sanitarie saranno all’origine del prossimo boom in America. Popolazione vecchia; consumo inevitabile; soldi a palate. Certo, si può guadagnare su tutto; anche sui crediti per mancato consumo di carbonio, facili da falsificare quanto i certificati della Parmalat o i versamenti Iva della Telecom. Ma a quel punto ogni falso è buono, e non c’è più nessun rapporto né con la salute né con l’ecologia.

“Lo straniero” in questo numero affronta il tema della salute, con cinque pezzi, i più lontani dalla discussione corrente.
Si comincia con un intervento di Roberto Landolfi, che affronta i mutamenti in atto o proposti nel sistema sanitario italiano, parte del dibattito politico di queste settimane. Posso solo aggiungere, oltre alla raccomandazione di leggerli nel contesto dei due pezzi più generali sul dono e sui danni del commercio della carne umana, alcune considerazioni da vecchio, che nascono dall’aver seguito e assai marginalmente partecipato alle discussioni (di epidemiologi, come Benedetto Terracini, medici, come Giulio Maccacaro, Renzo Tomatis, Giovanni Berlinguer e Ivar Oddone, giudici, come Raffaele Guariniello) e alle attività (di lavoratori, medici, delegati, sindacalisti, volontari) che accompagnarono le lotte contro la nocività nelle fabbriche (tema dell’articolo di Franco Carnevale) e la nascita del Sistema sanitario nazionale, oltre che del sistema pensionistico universale, nei terribili anni settanta, di cui oggi si ricordano più facilmente le tragedie e i delitti che ci furono, che non le conquiste.
Allora era chiaro a tutti che non poteva esserci salute nelle fabbriche o fuori delle fabbriche senza competenza e partecipazione dei singoli lavoratori e dei singoli cittadini. Le misure di sicurezza non si possono imporre né in cantiere né fuori del cantiere. I modi di vita, l’attenzione per le proprie specifiche fragilità, per evitare il danno o rimediarlo appena possibile, non si attuano per decreto, si raggiungono per scelta, con le insicurezze del caso, per decisione partecipata di tutti. è ovvio, anche se non li ho citati prima, che questo rimanda a una elaborazione psicologica, pedagogica, politica che include Musatti, Rozzi, Novara, Gallino, Basaglia, Jervis, alla Olivetti, negli ospedali, nelle università, nelle camere del lavoro, nei partiti politici, che è uno dei momenti alti della cultura italiana nel secondo dopoguerra. Avevano differenze di opinione; magari non sarebbero contenti di essere citati uno dopo l’altro senza avvertenze, come ho fatto, ma certo non erano venditori di corpi e medicine al più alto prezzo raggiungibile sul mercato. I sani si proteggono e i malati si curano con loro, non sopra di loro. Perché esistono e hanno bisogno di qualcuno che abbia pronunciato il giuramento di Ippocrate, non perché pagano. Pazienti, gente che soffre, non clienti; medici, non mercanti. Mestiere nobile anche quello del mercante, ma se si occupa di merci, non di uomini e di lavoratori. Il lavoro non è una merce, come dice il Bit (Bureau International du Travail) e non si stanca di ricordarci Luciano Gallino.
Oggi si tende a risolvere tutto con l’efficienza, facendola discendere dalla concorrenza e dalla privatizzazione. Ma la concorrenza è impossibile e la privatizzazione è il peggiore dei mali se si applica ai monopoli naturali e ai rapporti di cura. Già ora si vedono i danni della doppia appartenenza dei medici al privato e al pubblico. Si contano i miliardi perduti – da noi, guadagnati dai ladri – nelle corruzioni sanitarie. è il caso di svegliarci e di ritornare ai principi su cui il Sistema sanitario è nato.
Aggiungo un’ultima osservazione, ancora legata agli anni settanta, sulla riforma sanitaria negli Stati Uniti. Un articolo recente sulla “New York Review of Books” cita una stima della differenza di costo tra prestazione pubblica diretta e appalto in “Medicare” e “Medicaid”: si tratterebbe del 15%. Il 15% della spesa sanitaria americana è una cifra che nessuno di noi riesce a concepire materialmente; una risorsa infinita, per chi deve essere curato, o un infinito danno, per chi quel 15% lo incassa. A metà degli anni settanta tutti si davano da fare per rendere meno intollerabili le catene di montaggio. A Mirafiori tentarono un sistema che rendeva più flessibili le operazioni. Quando seppi che costava un terzo in più capii senza sforzo che non sarebbe mai stato applicato. Forse anche quel 15% in meno per i padroni della sanità è troppo per essere realizzabile, senza contare il dimezzamento dei prezzi delle medicine, la riduzione dei consumi, tutto quello che seguirebbe. Perciò Obama a difendere l’opzione pubblica non ci ha neppure provato. La differenza è che le automobili sono merci, non sono indispensabili, mentre la cura non è una merce. Ma Joseph La Palombara, di passaggio a Torino, ha ricordato che la Corte suprema degli Stati Uniti, rovesciando una interpretazione secolare, ha stabilito che per le aziende vale il diritto di parola, cioè che possono fare propaganda per chi vogliono, per qualsiasi cifra; e che durante la discussione in Senato la lobby della sanità ha speso 300 milioni di dollari in una settimana per contrastare la riforma. Non è il caso di illudersi.
C’è poi, in questo numero della rivista, uno sguardo al Pronto soccorso in due diversi quartieri americani, quello che anche gli italiani che hanno seguito una fortunata e molto replicata serie televisiva si sono abituati a chiamare Emergency room. La testimonianza di Teri Reynolds, Bollettino dal Pronto soccorso, racconta da Oakland (California) le sconfortanti ineguaglianze esistenti negli Stati Uniti fra servizio sanitario pubblico e privato, fra assicurati tutelati e non assicurati indifesi, che la proposta di riforma dei democratici di Barack Obama lascerà immutate. Si prosegue con Nancy Scheper-Hughes, sui disastri del commercio di organi da viventi – organi doppi, s’intende, o che si riproducono, come il fegato o il midollo spinale, almeno finché si resta al commercio legale. Qualunque neoliberista dirà che se uno vende, dato che il mercato è sempre informato, sa quello che fa; e se decide di vendere lo fa perché dopo aver venduto sta meglio di prima. è meno povero, anche se ha un rene di meno. Ma le cose, come ognuno può immaginare, non vanno così.
Enzo Ferrara ha tradotto e introdotto un pezzo da The Gift Relationship, di Richard Titmuss, uno dei padri dei principi su cui è stato costruito lo stato assistenziale in occidente e da cui è più sicuro partire, che parla della donazione di sangue, degli infiniti problemi, etici e commerciali, di qualità, di possibile nocività del sangue, quando non lo si dona ma lo si vende.

Il tema non si chiude qui; è ovvio.
Ci sono discussioni in corso sulle sperimentazioni, sulle verifiche, sulle buone pratiche. Sono scelte tutt’altro che chiare, che ciascuno di noi può trovarsi ad affrontare da malato o da medico, se lo è. C’è uno sterminato campo di confronti e di mutamenti in corso nel Sistema sanitario, da approfondire regione per regione, con meno dubbi e più interessi. Per non parlare di pratiche, come quella dei trapianti, che sono evidentemente insufficienti, e da qualche anno diminuiscono, mentre le liste si allungano. Chi gli organi li compra da viventi risolve il problema così, con i disastri che abbiamo mostrato. E le proposte di donazioni di organi da viventi a ignoti, che sono state fatte alle Molinette, a Torino, sono un gesto fraterno ed eroico, analogo alla divisione del mantello di San Martino, o rischiano l’autolesionismo? Non corre anche il dono il rischio dell’ignoranza delle conseguenze? E quando è giusto che il compianto sostituisca il conforto? E che contributo deve dare la pedagogia alla cura, alla prevenzione?
Cercheremo qualche risposta; o almeno di formulare le domande giuste.



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