domenica 16 maggio 2010

Decrescita o Conversione Ecologica?

Di prossima pubblicazione nel volume della rivista 'Testimonianze' dedicato a Stili di vita ed etica del consumare.
http://www.testimonianzeonline.com/

Pietro Del Zanna

Il tema specifico del mio contributo sul quale sono invitato a riflettere è "Decrescita" non regressiva e qualità della vita.

Chi me lo ha proposto sa, come si suol dire, che ha invitato la lepre a correre e lo faccio immediatamente intanto mettendo a fuoco il nodo, la contraddizione, che già il titolo rivela: “Decrescita non regressiva”. Ma cosa significa? E’ la ripetizione, con altre parole dell’ossimoro “sviluppo sostenibile”. E’ il sintomo palese, la spia rossa che lampeggia che segnala come “l’era dello sviluppo” sia riuscita pienamente nella colonizzazione dell’immaginario di cui tutti siamo vittime.

Nel vocabolario esiste il termine sviluppo, che ha un significato, ed esiste il termine sostenibilità, che ne ha un altro. Crescere significa una cosa, decrescere significa l’esatto opposto.

Proviamo ad iniziare l’opera di “decolonizzazione dell’immaginario” (per citare immediatamente Latouche) provando a costruire nuove immagini.

Immaginiamo la società dell’ultimo secolo e mezzo come un autobus di una gita.

Partiamo tutti quanti felici e contenti. Non avevamo mai preso un autobus. E’ bello percorrere in pochi minuti la strada che ieri percorrevamo in ore, vedere il paesaggio, gli alberi ingoiati all’indietro, la velocità…. Un’esperienza nuova ed inebriante. Così l’autista è incitato a premere sempre più il piede sull’acceleratore. Ad un certo punto pochi con la vista buona vedono in lontananza il profilo di un burrone e cominciano a dire che occorre rallentare. Macché, nessuno vuol sentirselo dire, ci stiamo divertendo troppo, cosa vogliono questi uccelli del malaugurio?

Oppure, seconda immagine, non siamo su un autobus, ma su una galera, una di quelle navi in voga fino al XVII secolo, i condannati ai remi, i privilegiati sul ponte e al timone. I galeotti combattono per liberarsi dalla loro condizione, sul ponte si incita più velocità e si tiene ferma la rotta. C’è una falla su un lato, qualcuno lo segnala. Com’è che tutto procede come prima? I galeotti dalla stiva a chiedere la legittima libertà, sul ponte il comandante a chiedere velocità?

Terza immagine: Ad un bambino portato dal pediatra perché un po’ sottopeso e che stenta a “tenere il passo” dei compagni di scuola viene prescritto un prodotto farmaceutico che favorisca lo sviluppo.

Cosa pensiamo di un medico che prescrive lo stesso prodotto ad un sessantenne sovrappeso?

Non credo occorra ancora portare dati che dimostrino che: 1) all’orizzonte, nemmeno lontano, c’è un burrone; 2) La nave ha una falla su un fianco; 3) La società occidentale è un sessantenne sovrappeso (malato di tumore?), con una società orientale lanciata sulla stessa scia.

“Se le cose restano come sono, il mondo è diretto verso il punto in cui la catastrofe ecologica irreversibile non potrà essere evitata: inconfutabili e concordanti dati scientifici lo confermano. I cambiamenti climatici puntano in una direzione chiara: inversioni di tendenza senza precedenti dello sviluppo umano nel corso della nostra vita e gravi rischi per le generazioni future. Per milioni di persone tra le più povere del mondo i cambiamenti climatici sono un pericolo immediato e stanno già minando i loro sforzi per uscire dalla povertà (agli zoppi calci negli stinchi, commento mio). Ma il nostro futuro non è predeterminato. Esiste una finestra di tempo utile per evitare gli impatti più devastanti, che tuttavia si sta chiudendo: il mondo ha meno di un decennio per cambiare rotta. Il mutamento del clima impone una riflessione sul modo in cui gestiamo l’unico bene che abbiamo in comune: il pianeta Terra. Soprattutto impone alla comunità umana di intraprendere un’azione collettiva immediata e incisiva”. Non sono gli scalmanati del Club di Roma di trenta anni fa che dicono queste parole, è un’agenzia dell’ONU dedicata allo “sviluppo” del mondo (Rapporto sullo Sviluppo Umano 2007-2008 dell’ UNDP).

Occorre maturare la consapevolezza che siamo giunti alla fine di una fase storica, indugiarvi ulteriormente rischia di essere letale.

Wolfgang Sachs nel “Dizionario dello Sviluppo” (edizioni Gruppo Abele 1998) propone di chiamare “era dello sviluppo” quel particolare periodo storico che ha inizio il 20 Gennaio 1949 quando Harri S. Truman, per la prima volta, dichiarò nel suo discorso inaugurale l’emisfero Sud “area sottosviluppata”. Subito dopo aggiunge: “Ciò che nasce in un dato momento, tuttavia, può in un momento successivo morire, ed è per questo, perché la storia ha posto fuori del tempo le sue quattro premesse, che l’era dello sviluppo conosce il suo declino”. La prima premessa a cui Sachs fa riferimento è la convinzione che gli Stati Uniti, e con loro l’occidente, si trovassero al vertice della scala evolutiva. Premessa spazzata via dalla crisi ecologica.

Eppure “l’era dello sviluppo” è recente e l’umanità ha trascorso molto tempo facendone “tranquillamente” a meno.

Mi ha colpito molto un’immagine che si trova nel libro di storia delle elementari di mia figlia. Tra gli attrezzi utilizzati in agricoltura dagli uomini del neolitico c’è un aratro di legno tirato e spinto a mano da due uomini. L’aratro disegnato non è molto dissimile da quello che conservo nell’aia e che i contadini di qui utilizzavano ancora cinquanta anni fa trainato da una coppia di buoi.

Nell’arco di circa diecimila anni abbiamo assistito alla sostanziale innovazione di aver attaccato i buoi all’aratro. Nell’arco di cinquanta-sessanta anni l’immane trasformazione avvenuta l’abbiamo sotto gli occhi: trattori mastodontici trainano aratri polivomeri in grado di affettare e rovesciare in poche ore intere pianure e colline, là dove fino a ieri coppie di buoi impiegavano settimane se non mesi per fare una lavorazione più superficiale.

Quindi si tratta di tornare indietro e rimpiangere un passato bucolico rigettando in toto la modernità?

No, assolutamente. Nessuno dice questo. Si tratta di prendere coscienza della radicalità e complessità dei problemi e cominciare a costruire vie d’uscita. Si tratta di comprendere che siamo ad un bivio come altre volte è capitato.

Varie civiltà si sono già trovate a questo bivio. Ce lo ricorda Laster R. Brown nel suo “Piano B.3.0”. Sei secoli fa gli islandesi realizzarono in tempo che l’eccessivo sfruttamento dei pascoli erbosi sugli altopiani stava causando una grave perdita di terreno. Gli allevatori si accordarono tra loro per calcolare quante pecore gli altopiani potessero sostenere e poi distribuirono le quote tra di loro così da preservare i loro pascoli. Esempio diametralmente opposto la civiltà sumera che nel IV millennio a.C. aveva sopravanzato ogni altra società precedente. Il suo ingegnoso sistema di irrigazione aveva permesso l’aumento della produzione agricola. Il controllo del sistema irriguo sumero richiedeva una sofisticata organizzazione sociale. I Sumeri fondarono le prime città e la prima lingua scritta. Ma c’era un difetto di “sostenibilità ambientale” nel progetto del sistema irriguo. Con l’andare del tempo, l’accumulo di sali minerali sui terreni portò ad una diminuzione del rendimento agricolo. A quel punto i Sumeri passarono alla coltivazione dell’orzo, una cultura che tollerava meglio la salinità. Questa scelta posticipò il declino della civiltà sumera, che curò il sintomo e non la causa della riduzione dei raccolti. Come crollò l’approvvigionamento di cibo declinò la civiltà.

Gli islandesi dimostrarono una “capacità politica” di individuazione e gestione del problema, cosa che non furono in grado di fare i Sumeri.

E desso? Cosa accadrà alla nostra civiltà?

Possiamo prevedere poco di buono se abbiamo difficoltà anche a leggere la realtà e cambiare un linguaggio formato e deformato dalla realtà precedente.

Quando ci troviamo sull’orlo di un baratro, fermarsi e retrocedere è la cosa più naturale e sensata che ciascuno fa normalmente.

Perché a livello politico e sociale non è così?

Perché non siamo in grado di separare il termine “sostenibilità”, (che va declinata sicuramente nei suoi tre aspetti: ambientale, sociale ed economica) al termine “sviluppo”?

Perché al termine, sicuramente provocatorio, “decrescita” gli stessi promotori devono affrettarsi ad aggiungervi “serena” o “felice” o, per venire a noi ,“non regressiva”?

Io credo che la risposta stia nel conflitto tra la semplicità della percezione dell’individuo e la complessità del sistema che abbiamo messo in piedi.

Se torniamo agli esempi di Laster R. Brown la cosa mi sembra abbastanza evidente. Gli allevatori avevano a portata di percezione il disequilibrio che si andava creando, i Sumeri, società più complessa, no. Hanno tentato di dare una risposta alla parte emergente del problema (un po’ come chi oggi propone il nucleare per risolvere il problema dei cambiamenti climatici e dell’esaurimento delle fonti fossili), ma non avevano più la capacità di comprenderne le cause ed individuare cambiamenti sociali strutturali per risolverlo alla radice.

Oggi, come singoli individui, cresciuti nel mito dello sviluppo e della crescita, ma anche nella sostanziale realtà della società dei consumi ci è difficile pensare che si possa stare meglio con meno. Che si possa stare meglio consumando meno. Eppure basterebbe rientrare, con la ricchezza di tutte le conoscenze (scientifiche e tecniche) ed esperienze acquisite, in una logica circolare abbandonando la freccia lineare univoca dello sviluppo.

Basterebbe guardare alla natura con altri occhi ed inserirsi nuovamente nei cicli che ci propone. Basterebbe ridimensionare la logica della competizione a vantaggio di una logica di solidarietà. Solidarietà (fraternità), è questa terza parola dimenticata della Rivoluzione Francese, che pone l’accento sulla relazione più che sull’oggetto, l’unico possibile valore fondante di questo inizio millennio. Pensiamo un po’ al secolo scorso: cosa non è stato fatto in nome della libertà su un fronte ed in nome dell’uguaglianza sull’altro. Poi venne un papa polacco e la sua Polonia riuscì a far crollare il muro che divideva le due parole con la cenerentola dimenticata: “Solidarnosc”. Non ci può essere riparazione, cura, senza fraternità. Troppo buonista? Troppo religioseggiante? Può darsi. Ma non vedo alternative. Anche la “conversione ecologica” di cui parlava Langer non ha avuto ancora successo forse per questo richiamo. Eppure è assai meno ostica e più digeribile della “decrescita”.

Perché conversione e non riconversione o rivoluzione?

Io non so se sia stato Alexander Langer ad utilizzare per primo questo termine. Suppongo di sì. Sicuramente è il primo che lo ha utilizzato con una certa sistematicità. Da non perdere uno dei suoi ultimi scritti “La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile”.

Fin dai primi convegni verdi, ed ancora oggi, si tende a parlare di riconversione ecologica dell'economia (accompagnato all'ossimoro di “sviluppo sostenibile”). Non vi è una visone complessiva. Siamo sempre imprigionati dallo sguardo dell'homo economicus che, ormai da un secolo e mezzo, tutto vede, teorizza e pratica in nome dell'economia, quasi- a voler riscrivere la Bibbia- Dio avesse creato il mercato e tutto il resto al seguito.

La riconversione parla sul piano economico, parla di un cambiamento delle attività produttive: la riconversione dell'industria bellica per esempio o di quella dell'automobile o di quella energetica.

Oggi, almeno a parole, tutti o meglio molti sono d'accordo sulla necessità di questa riconversione che al momento viene chiamata Green Economy o New deal ecologico.

Anche l'accoppiata di termini “rivoluzione verde” compare qua è là tra i più temerari. Ma è un concetto più impegnativo ed indigesto. L'esito delle rivoluzioni passate lascia spazio a poche speranze. Quanti sogni spezzati? Quanti “effetti collaterali” hanno letteralmente inficiato i buoni propositi iniziali? Quante restaurazioni traumatiche? Se riconversione parla sul piano economico rivoluzione parla sul piano sociale. E non vi è dubbio che per un prossimo futuro possibile e sostenibile vi sia bisogno di radicali cambiamenti su entrambi i piani.

Ma conversione ha un che di religioso, forse per questo è un termine che in politica stenta a decollare. Ci si converte dall'ateismo ad una religione o da una religione all'altra. Il cambiamento avviene, o dovrebbe avvenire, nell'intimo della persona (a parte crociate di tutti i tipi e missioni di un certo tipo che hanno preteso e pretendono di imporre con la forza tale cambiamento). La conversione può essere repentina nel proprio intimo ma infinitamente paziente nella storia. La visione escatologica permette di comprendere, perdonare, accettare tempi addirittura eterni, fino al martirio se necessario. Lungi da me l'idea di fare qualsiasi minima apologia del martirio resto affezionato all'idea di “conversione ecologica” perché riesce con due semplici parole a parlare di una necessità di cambiamento sui tre piani appena descritti e ad indicare un metodo, questo sì rivoluzionario, soprattutto in politica. Un metodo che guarda e valorizza la capacità di convincere e non quella di vincere, che parta dalla forza delle idee più che della forza dei numeri (che dovrebbe venire di conseguenza e non viceversa. Il dramma del Partito Democratico è proprio questo, che il ragionamento, semplificato, è stato: “costruiamo un partito forte, importante, che possa battere il centrodestra, poi pensiamo ai contenuti da dargli”. La Forza di Euorope Ecologie in Francia sta nel processo diametralmente opposto).

Conversione ecologica indica la necessità di un cambiamento sì delle politiche economiche e produttive, sì di leggi e decreti, ma anche e soprattutto di un cambiamento sul piano individuale. Cambiamento che riguarda i consumi e gli stili di vita certo, ma con l’attenzione a non imprigionarci in nuovi piccoli integralismi (forse nemmeno noi saremmo capaci di vivere nelle utopie che raccontiamo ci avvisava sempre Langer), ma soprattutto che riguarda il nostro modo di relazionarsi con l'altro e la natura che ci circonda.

Quindi, non sottovalutando, tutt’altro, i cambiamenti che dovranno avvenire su un piano politico-economico più strutturato rimane un ampio margine qui ed ora per sperimentare i cambiamenti necessari proprio per quanto riguarda gli stili di vita ed i consumi a cui questo volume è dedicato. Ampie e variegate sono le realtà in atto, dai GAS al movimento Slow Food di Carlo Petrini, dagli eco villaggi alla semplice scelta individuale di alimentazione.

Mi auguro che altri presentino esperienze concrete capaci di far comprendere quanto la conversione ecologica sia già oggi socialmente desiderabile. Io ho finito il mio spazio

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